Il buon samaritano

(i'incipit de "la danza delle marionette", la mia creatura)

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  1. Luccs
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    “Ma un Samaritano che era in viaggio passò accanto a lui,
    lo vide e ne ebbe compassione.”
    (Luca 10:33)


    2 novembre, ore 7:25 p.m., le strade della metropoli

    A chi gli chiede come si guadagna da vivere, Brian Mallory risponde che fa la guardia del corpo di una persona importante. Lo dice con quell’accento irlan-dese di cui va orgoglioso e che non ha perso anche se vive in America da quand’è bambino: perché la patria, dice lui, non la si dimentica.
    L’Irlanda gli ha lasciato in dono il rosso dei capelli, la passione per le birre e quella giovanile per le risse del sabato sera; oggi, a quarantacinque anni, Brian preferisce ascoltare heavy metal, giocare a scacchi, mangiare bene e leggere riviste sportive o i libri polizieschi di Raymond Chandler. Non è sposato e neppure fidanzato, anche se ogni tanto incontra una giovane vedova alla parrocchia di Saint Mary e trascorre con lei la domenica pomeriggio. Troppo poco, forse, per essere amore, ma Brian non si lamenta: la vita è già stata abbastanza generosa con lui, da accendere tutti i giorni un cero a San Patrizio.
    Una patina piovigginosa si distende uniforme lungo strade viscide, illuminate da lampioni e insegne variopinte: Prescott Street povera e disadorna, Washington Avenue dal traffico sostenuto, Garland Street che alterna le luci dei negozi al buio di vicoli ingombri d’immondizia.
    Brian guida mantenendo le distanze dall’auto che lo precede, rispettando i segnali, senza mai accelerare o frenare di scatto. Questo è il momento della notte che preferisce: senza di lui il Capo sarebbe come uno zoppo in una gara di corsa, perché non sa guidare un’automobile.

    (Forse a quelli come lui non insegnano come si guida una macchina.
    Si vede che hanno altre cose più importanti da imparare.
    E grazie al culo, così almeno i loro autisti si sentono utili.)


    Gocce leggere come neve sporcano il parabrezza senza bagnarlo, scendono sulla città da nubi scure e gonfie. Il fragore del traffico, di sirene e musica ad alto volume sovrasta i tuoni, il trionfo del mondo moderno sulle forze del creato. Nell’auto le voci della civiltà e della natura arrivano ovattate, disperse dalla musica di violini e pianoforte che eseguono un concerto di Mozart.
    Brian incrocia i propri occhi azzurri nello specchietto: brillano su una faccia larga con la barba e i baffoni, e i capelli pettinati con tanto gel.
    Sposta gli occhi e si specchia in quelli dell’uomo seduto dietro.
    Gli sorride a labbra serrate: lo ammira, lo venera.
    E ha terrore di lui.

    ***

    Ore 8:10 p.m., Revere Park

    La lattina vacilla, fa un giro su se stessa, cade e rimbalza sul selciato, accolta da applausi, urla e fischi; il cielo scuro, riluttante, brontola tuoni ma trattiene la pioggia, come se anche lui volesse fermarsi ad assistere allo spettacolo.
    Uno stereo portatile ringhia musica hip-hop tra gli scivoli e le altalene di un parco giochi e il chiosco di Sam (che di giorno fa i migliori hot dog alla cipolla del quartiere), davanti a una fila di alberi e una macchia intricata di cespugli, dove spesso vanno ad appartarsi le coppiette.
    Rachel Kinsella soppesa il sasso, se lo rigira tra le mani come fa con la palla da softball, quand’è sulla pedana di lanciatore nel campetto della scuola. Il vento profumato di umidità le sfiora il viso con una carezza e fa tremare l’ultima lattina vuota come un condannato davanti al plotone d’esecuzione.
    Rachel ha con lei tutto quello che le serve per una serata da sballo: skateboard, stereo e abbastanza soldi per un hamburger. E le Ankle Sisters al completo.
    Ankle significa “caviglia”, ma nel linguaggio di strada indica una ragazza carina: Sisters perché sono l’unica famiglia che molte di loro si possano permettere. I modi e il linguaggio sono quelli dei BG, i “Baby Gangsta”: rubano alcolici al supermercato, imbrattano i muri, spaccano i lampioni. Da lì a passare a qual-cosa di più serio è un salto, lo stesso che divide i Baby dagli Original, i ragazzi dagli adulti, i teppisti dai criminali.
    «Questa la sbagli!», «Stiamo qui tutta la notte?», «Spicciati!», «Sei scarsa!».
    Le Sorelle cercano di distrarla sperando che sbagli il tiro. Niente di strano, ci sono soldi in ballo.
    Rachel tende il braccio e la pietra sibila, incontra un rumore di metallo sgangherato. Game over, sei su sei: scommessa vinta, fuori la grana.
    «Avete visto chi c’è?» cinguetta Carmen. Rachel segue il suo sguardo lungo il viale fiancheggiato dai lampioni.
    C’è un uomo fermo vicino a una panchina: indossa un cappotto scuro con il colletto di pelliccia e tiene le mani in tasca. Il viso è nascosto dal riflesso dei lampioni ma Rachel riconosce quel modo tutto suo di piegare il capo ed è sicura che stia sorridendo.
    «Ehi… guarda, c’è l’amico-damerino di Rachel.»
    «Dio, quant’è fico…»
    «Chiedigli se porta fuori me, domani sera.»
    «Digli che faccio tutto quello che vuole… tutto!»
    Rachel si sforza di far finta che non le importa. Nella cerimonia d’ammissione ha giurato: “quello che è mio è vostro, quello che è vostro è mio”.
    «Va bene, glielo chiedo. Smettetela di sbavare, fate pena.»
    «Parli così perché te lo godi tu, il damerino.» Chrissy ha tre anni, dieci centimetri e almeno altrettanti chili più di lei. Nel suo ringhio a denti stretti c’è uno spazio vuoto, ricordo di quando ha fatto a botte con un ragazzo di Benjamin Street, e ne ha date più di quante ne ha prese:
    «Che ci vuoi fare, Chrissy? Mi spiace, preferisce me.»
    Si avvia sul vialetto lasciando le amiche in compagnia di invidia e pettegolezzi.
    Sugli uomini Rachel ha già le idee molto chiare, e per questo deve dire grazie a sua madre. Ci sono gli “Alza il Dito”, che dura finché non si stancano e spariscono col medio alzato. E ci sono i “Di Sicuro”, che piantano le tende in casa, si fanno cucinare due pasti al giorno e lavare la biancheria; quelli che“me lo sento Rachel, con questo ci sposiamo di sicuro”.
    Tredici anni fa, suo padre doveva essere un Di Sicuro. Che reggano qualche settimana o mese, alla fine dei conti i Di Sicuro non sono altro che Alza il Dito a lungo termine. Tutti uguali, gli uomini. Tranne Lui. Forse.

    (Veste da film in bianco e nero. E’ un vecchio e non è neppure bello.
    Eppure è fico, una bomba. Un Vincente punto e basta.
    Il Re dei Vincenti).


    Il Re dei Vincenti difende una ragazza che le sta prendendo di brutto per aver sfilato il portafogli alla persona sbagliata. Ha stile, non fa prediche e non chiede niente in cambio. Nemmeno un grazie.
    «Buona sera, Rachel.»
    «Ciao, maestà, come ti butta?»
    Lui sorride sempre quando si sente chiamare così, si vede che gli piace.
    Chissà se ci crede davvero.
    Mania di grandezza o rotella fuori posto che sia, Rachel gliela perdona: dopo tutto, se si chiamasse Angus, anche a lei verrebbe da cercarsi un soprannome.
    «Sto bene, grazie. E a te? Come… ti butta?»
    «Alla grande» risponde Rachel, e si sente addosso gli occhi delle altre: «Devo parlarti, ma prima togliamoci da qui.»
    Un fulmine balena sopra di loro, sbiancando le chiome degli alberi. Un tuono lo accompagna, ruggisce, si perde nel traffico di Becker Street e nel coro di risa sguaiate e commenti volgari che si fanno sempre più lontani.
    Raggiungono un muretto di mattoni che costeggia un campo da baseball. Angus ci si appoggia, Rachel si deve arrampicare per sedersi, fa ciondolare le gambe contro l’intonaco imbrattato di scritte:
    «E’ una cosa seria, maestà.»
    «Ti sei messa nei guai?»
    «Non io.» Rachel ha un accordo con Sua Maestà, una specie di patto solenne, anche se all’inizio credeva che fosse una presa per il culo. «C’è un ragazzo a scuola… si chiama Ruben, credo Vasquez di cognome… noi lo chiamiamo “Cabeza”.»
    «Cos’ha combinato?»
    «A volte fa qualche lavoretto negli appartamenti. Le Sisters guardano se non arriva nessuno, e lui ci passa un po’ di verdoni.» Rachel fa una pausa e lo guarda in viso. Se Sua Maestà disapprova, ha il buon gusto di non farle la predica. «Ricordi il magazzino di Chase Road, quello davanti alla cartoleria di Coleman? Prima era sempre vuoto e ci facevamo i rave party: adesso è una settimana che girano facce losche. Italiani. Ruben dice che ci tengono roba che scotta, ieri sera è andato a dare un’occhiata: gli ho fatto il palo mentre entrava, ma poi non l’ho più visto e neanche oggi a scuola.»
    «Hai fatto bene a dirmelo. Penso che sia nei guai.»
    «Ma se te l’ho detto io!» sbuffa, Rachel, e le viene da ridere, solo per un attimo perché la storia non promette nulla di buono. «Ieri, dopo un po’ che Ruben era dentro, è arrivato un elegantone ed è entrato anche lui. Uno con una Corvette, questa è la targa.»
    Tira fuori dalla tasca un foglio che profuma di ketchup e patate fritte, sopra c’è scritto “LOU1355”.
    «Sai chi era?»
    «Non gliel’ho chiesto: troppo vecchio per me, e pure antipatico.»
    Angus annuisce:
    «Un buon lavoro.»
    Rachel trattiene il sorriso.
    Ti pare che Bruce Willis o Steven Seagal farebbero un sorriso scemo a chi gli dice: “Un buon lavoro”? Piuttosto risponderebbero…
    «…E’ stata solo una cazzata. Adesso vado.»
    Salta giù dal muretto e fa per tornare al chiosco, Angus le chiede:
    «Hai bisogno di qualcosa? Soldi?»
    «Dopo la scuola do una mano alla signora Berry in lavanderia. Lo sapevi, no? Scommetto che è amica tua.»
    Per un attimo lui ha la faccia soddisfatta del professore preso in castagna dalla sua allieva secchiona preferita. Poi torna serio e chiede:
    «Hai più visto il motociclista?»
    Il motociclista, anzi, il Motociclista con la “m” maiuscola. Giubbotto di pelle e moto nera con fregi d’argento a forma di teschio, come la bandiera dei pirati.
    Avrà venticinque o trent’anni. E’ carino e lo sa: e tra tutte le Sisters sembra aver posato gli occhi su Rachel, l’unica che non se lo fila.
    Il Motociclista non le piace, puzza di fregatura come un cartoccio di latte lasciato ammuffire in frigo. Sa di Alza il Dito lontano un miglio.
    Il Re degli Alza il Dito.
    «E’ passato ieri… no, era mercoledì.»
    Angus diventa più attento:
    «Ed era notte.»
    «Sì, e aveva quei fottuti Rayban! Cazzo li tiene a fare che non c’è il sole?»
    Le piacerebbe sentire una risposta diversa da quella che si è data lei, che il Mo-tociclista tiene sempre gli occhiali a specchio, perfino di notte, per non far vedere chi guarda, e come.
    «Arriva con la moto e si ferma proprio davanti a noi. E tutte a dirgli: “ehi bello”, “ciao tesoro”, “mi fai fare un giro?”. Io non gli ho detto niente, giuro, manco lo guardavo! Lui invece punta me e mi fa: “Se vuoi lo faccio fare a te il giro”. Chi gliel’ha chiesto a quello stronzo?»
    Rachel non aggiunge che le tremava la voce, a lei che non ha mai paura di niente: ancora adesso, a pensarci, le viene la pelle d’oca. Ma forse Angus capisce lo stesso, e non sarebbe la prima volta che sembra leggerle nel pensiero.
    «Non rimanere mai da sola con quel tipo.»
    «E’ un maniaco, vero?»
    «Qualcosa del genere.»
    «Lo sapevo.»
    «Fai attenzione, Rachel.»
    «Tranquillo, so tenermi alla larga dai guai.»
    «Spero che continuerai a pensarlo quando i ragazzi t’inviteranno a uscire.»
    Lo dice con lo sguardo furbo di chi sa pungere senza far male, come un pizzicotto sulla guancia.
    Rachel voleva nascere maschio e a volte riesce perfino a sembrarlo, quando nasconde i capelli color sabbia con i berretti da baseball, il seno minuscolo sotto maglioni informi e i lineamenti graziosi con smorfie da dura. Sa che presto non basterà più tenersi alla larga da trucchi e rossetto per scoraggiare i ragazzi del quartiere, ma per allora vedrà di essere pronta: di Kinsella perdenti ne basta una, sua madre.
    «Che stronzo… Guarda che i ragazzi m’invitano già anche adesso.»
    Infila le mani nella felpa e si avvia lungo il vialetto, ma dopo qualche passo si volta, e Angus è ancora lì, fermo, quasi si aspettasse che lei si sarebbe guardata indietro. Forse è davvero magia.
    «Ehi, Maestà…»
    «Sì?»
    «Il guardiano del magazzino è solo un pivello, non fargli troppo male.»
    Da qualche parte il latrato di un cane risponde a un tuono più vicino degli altri.
    Rachel ritorna dalle amiche pronta alle solite domande.
    Com’è andata? Te lo sei fatto? Lo hai almeno baciato?
    Quando parla di lui alla banda si adegua alle aspettative per non farsi prendere in giro: parla di una preda a cui spillare un po’ di soldi.
    Le Sisters sono la sua famiglia e sanno tutto di lei, ma a loro non confesserà mai che quando sogna Angus lo immagina che guardano insieme il baseball alla TV e poi va a rimboccarle le coperte e le dà il bacio della buona notte.
    Il giuramento non la obbliga a dividere anche i sogni.

    ***

    Ore 10:00 p.m., 155 Chase Road

    Brian tiene gli occhi sull’auto, una Corvette bianca con la targa “LOU 1355”. Gli piacciono le Corvette: gli fanno pensare a quei telefilm polizieschi dove i protagonisti bevono drink sulla spiaggia circondati da ragazze in bikini, con un bel sottofondo di musica caraibica,. Le Corvette sanno di schifosamente ricco.
    L’auto è parcheggiata di fronte al 155 di Chase Road, un palazzo grigio dai vetri rattoppati con nastro adesivo e cartone, i muri sporchi di smog e ricoperti di scritte e graffiti.
    Dallo stereo dell’auto esce la musica che piace tanto ad Angus. Non che Brian si permetta di giudicare i suoi gusti, lo sa anche lui che Mozart era un grande, ma per notti come questa sarebbero meglio i Metallica o i System of a Down. Ha provato a farglieli sentire, e non si può dire che Angus non li abbia ascoltati, prima di sbilanciarsi in un cortese: “Non sono il mio genere”.
    Angus si è spostato sul sedile davanti, accompagna le note con le mani come sulla tastiera di un pianoforte. Molte volte Brian si è chiesto se quell’assonanza Angus-Angelo sia un caso, una sorta di predestinazione, o piuttosto uno scherzo di cattivo gusto: perché chiunque sia, qualunque cosa sia, di sicuro Angus non è un angelo.
    Una station wagon arriva lenta lungo la strada e si ferma davanti al magazzino. Brian guarda scendere due uomini dall’aria sospettosa. Le mani in tasca e le braccia strette sui fianchi lasciano immaginare almeno un’arma da fuoco nascosta sotto le giacche. Sfilano accanto al vetro della guardiola, fanno un cenno di saluto, poi entrano nel magazzino mentre un fulmine inonda di bianco la facciata dell’edificio. Brian lascia sfogare il tuono, osserva:
    «Gorilla».
    «Tieniti pronto se qualcosa va male.» Il marcato accento scozzese di Angus si riconosce dal modo di arrotare le “r” e dalle vocali prolungate e solenni.
    «Sicuro» annuisce Brian. Si sente come un bambino che ha appena ricevuto una caramella per non fare i capricci.
    Abbassa gli occhi e le guance gli vanno in fiamme per la vergogna: se uno come Angus si è scomodato per dare al vecchio Mallory un’altra possibilità, il vecchio Mallory è in debito con lui, sissignore. Ogni giorno vissuto è guadagnato, e non è una brutta vita: bei vestiti, i migliori ristoranti, un tetto di lusso sotto cui dormire e un gruzzolone in banca con una persona in giacca e cravatta che cura i tuoi interessi. Ci sono momenti, quando parlano fino all’alba nel rifugio che da fuori non gli daresti un centesimo, in cui Brian s’illude di essere qualcosa di più, forse… un amico.
    Dalla vita ha tutto quello che può desiderare, tranne una vita sua, ma a quella non sente di avere diritto. La sua vita se l’è già sprecata da solo, e quella che gli resta la dedica spontaneamente al suo salvatore.

    (Da solo forse non sono capace di vivermela, la vita.)

    ***

    Ore 10:25 p.m.

    Mark Lawson soffoca uno sbadiglio: la stufa elettrica diffonde un tepore con-fortevole, e il ronzio ipnotico come le fusa di un gatto inducono a chiudere gli occhi e prendere una pausa. Per allontanare la tentazione, Mark si concentra sulle formule, scrivendole sul plico di carta riciclata.
    La cabina è illuminata da una lampada che rischiara il tavolo, dove oltre al libro di matematica ci sono gli avanzi della cena. E la fondina con la pistola.
    Appesa a un attaccapanni, la giacca pesante ricorda a Mark che un giro d’ispezione lo aspetta.
    Più tardi, ha detto Lou, quando saranno andati via; adesso non vogliono essere disturbati. Occhi aperti quando serve, chiusi quando ti dicono di chiuderli. Con l’extra che gli ha passato Lou, Mark porterà Nathalie a cena da “Papà Giusep-pe” e fanculo a tutti.
    Sobbalza quando sente bussare al vetro.
    Un uomo, dall’altra parte, gli fa un cenno cordiale. Indossa un cappotto e un cappello a tesa larga, e tiene in mano un ombrello… no, un bastone da passeggio. Il colletto è sollevato, senz’altro per il freddo, nasconde il viso ma non gli occhi che brillano nel buio.
    «Desidera?»
    «Buonasera, mi serve un’informazione.»
    L’accento non è del posto, dev’essere un venditore di passaggio o un uomo d’affari. Strano che sia finito da queste parti. Forse cerca il Saratoga Hotel.
    Ha una voce simpatica, modi educati.
    E i suoi occhi sono così
    (straordinari)
    buoni.
    Un sorriso si apre nella fenditura d’ombra scavata dalla stoffa:
    «Mi fa entrare? Mi riscaldo un poco.»
    Una richiesta strana, ma altrettanto strana è la sensazione che raggiunge Mark al cuore, con un gradevole profumo di ricordi sereni.

    (Quest’uomo lo conosco: è un amico, mi posso fidare.)

    «Aspetti.»
    Ha la prontezza di prendere la fondina e di allacciarla alla cintura, forse per darsi un aspetto più professionale, per far capire che ha tutto sotto controllo, anche se non ha mai sparato un colpo in vita sua, se non nell’immaginazione con cui ha dipinto il colloquio per avere questo lavoro. Ruota le chiavi nella serratura e apre la porta al vento gelido, che porta il ruggito dei tuoni e la promessa di pioggia imminente:
    «Venga, venga pure.»
    L’uomo entra e rimane in piedi, strofinandosi le mani: sono magre e pallide, nota Mark. Davvero molto pallide.
    «Cosa stai studiando?»
    «…matematica, mister.»
    «Sembra una cosa piuttosto difficile. Studi al college?»
    «Ho la faccia da college, secondo lei? No, è un corso per corrispondenza. Però al college mi piacerebbe andarci.»
    Mentre parla, Mark si accorge che c’è qualcosa di stonato in quella conversa-zione. No, non è la conversazione, è lui che stona. Sembra così… familiare. Già, tra poco si toglierà il cappello e si farà riconoscere.
    “Sono il professor Campbell, ti insegnavo letteratura. Quella volta che pensavi di avere messo incinta Sandra eri venuto da me a chiedere consiglio”.
    “Testa di cocomero, non ricordi tuo zio Jeff? Ti portavo le caramelle e ti raccontavo le fiabe finché non ti addormentavi tra le mie braccia”.
    Mark aspetta la rivelazione, sente che è prossima. Quest’uomo non può essere uno sconosciuto: gli vuole troppo bene.
    «La tua famiglia deve essere molto orgogliosa di te» gli dice, e in questo quasi lo convince di essere il professor Campbell. Glielo diceva sempre.
    «Sì… signore.» Si trattiene dal chiamarlo “professore”: e se invece fosse zio Jeff, che prima di trasferirsi in Messico con la sua nuova moglie faceva il carrozziere?
    «Mi faresti una cortesia?»
    «Se posso…»

    (Una cortesia? Dopo quello che ha fatto per me, professore? Mi ha dato ripetizioni quando rischiavo di essere bocciato, senza farmi pagare un centesimo, e per non umiliarmi mi faceva falciare l’erba del prato. E sono in debito anche con te, zio. Per tutte le volte che mi hai tenuto in braccio e mamma era troppo stanca e papà dormiva perché poi era di turno in fabbrica. )

    Chiedetemi quello che volete.
    «Poco fa sono entrati due uomini.»
    «Sì… sì, certo.»
    «Ne sono arrivati altri, prima di loro?»
    La cortina vacilla e s’insinua il dubbio.
    Ecco la realtà, pura e semplice, deludente come solo la realtà sa essere.
    Quest’uomo dai modi gentili deve essere un socio in affari di Lou, quindi una coscienza tutt’altro che candida. Il resto è stato solo un… come lo chiamano? Un deja-vu, uno di quegli incontri che ogni tanto capitano, con qualcuno che ti sembra di aver già conosciuto. Magari in un’altra vita, perché no?
    «Soltanto Lou. La stanno aspettando?»
    «Oh, non credo.» Tre innocue parole. Eppure Mark ha la sensazione che qual-cosa sia cambiato, da quando sono state pronunciate. Un comando, sì. Un incantesimo maligno. Un "oh-non-credo" che suona come un "vieni-e-manifestati" nel bel mezzo di una seduta spiritica. E perché, si chiede Mark mentre rabbrividisce, adesso nella cabina riscaldata si muore di freddo? Perché le luci brillano meno forte di prima, come se le ombre avessero preso vita?
    Quell’uomo non è zio Jeff, e Mark si chiede come ha fatto a pensarlo; non è il professor Campbell. Ma nemmeno un socio di Lou.
    Quell’uomo non è un uomo.
    Mark fa in tempo a pensare:
    Dimentica di averlo visto non guardarlo in viso! Dio pietà!
    poi una fiammata gli esplode alla tempia, riempiendo la vista di nebbia.
    Mark si risveglierà all’ospedale, con un gran mal di testa, e papà, mamma e Nathalie attorno al letto. Scoprirà che è stato trovato in un vicolo a diversi isolati dal magazzino, privo di sensi e portafoglio, ma con lo zaino e tutte le sue cose dentro: aggressione a scopo di rapina.
    All’agente che verrà a interrogarlo non dirà del suo lavoro per gli italiani, e de-scriverà l’aggressore come un uomo con cappotto, cappello e bastone da passeggio, che dopo avergli chiesto un’informazione (“mi potrebbe dire dov’è il Saratoga Hotel?”) l’ha colpito alla testa, forse proprio con il bastone.
    Non avrà il coraggio di raccontare a nessuno, nemmeno a Nathalie, le sensazioni innaturali di quell’incontro. Né di come ritroverà il suo portafoglio nella buca delle lettere di casa, con dentro cinquecento dollari in più.
    Scoprirà dai giornali che il magazzino di Chase Street si è guadagnato un posticino nella pagina di cronaca nera: se fosse rimasto nella guardiola avrebbe passato guai seri, con gli sbirri o con la mafia.
    Mark si renderà conto di avere appena sfiorato qualcosa che non può nemmeno immaginare: tornerà a incontrarlo, ma solo nei sogni, e avrà l’aspetto di un uomo in mantello, cilindro e camicia di seta, come un gentiluomo del passato.

    ***

    Ore 10:45 p.m.

    Lou aspira a fondo dalla sigaretta. Indugia a guardare la nebbia che si disperde dalle sue labbra, attraversa il cono di luce bianca e scompare tra le ombre.
    «Coraggio, Ruben… perché non me lo vuoi dire?»
    «Te l’ho già detto… Lavoro da solo…»
    Lou sta in piedi al centro della stanza, in maniche di camicia e la sigaretta ap-poggiata sulle labbra. Osserva Ruben dall’alto. Ruben è legato a una sedia e ha gli occhi pesti, il labbro spaccato e piccole cicatrici rotonde sulle guance e sul petto: ogni volta che cerca di liberarsi, strattonando le corde, la camicia strappata ondeggia come una bandiera.
    Lou allontana la sigaretta dalle labbra e la appoggia sul viso di Ruben. Con noncuranza, senza quasi guardarlo. Ruben lancia un urlo di dolore e Lou ride, ride di gusto.
    «Non ci siamo… no, proprio no. Non ci siamo.» Lou prende l’accendino e fa brillare la fiammella accanto agli occhi di Ruben. «Uno sbarbatello come te viene a curiosare proprio qui e vuole farmi credere è stata un’idea sua? Ti ha mandato lo Scozzese?»
    «Non so chi… cazzo è questo scozzese…».
    Mentre Lou accende di nuovo la sigaretta, ha l’impressione di sentire un rantolo soffocato dall’altra parte del magazzino. Poi il rumore di qualcosa che cade. Qualcosa di pesante e morbido.
    «Rosario… Kevin? Rosario… dove siete?»
    Nessuna risposta. Ma un certo punto, nell’aria che sa di polvere e muffa, si sente un fruscio. Un altro, più vicino. Lou lascia cadere la sigaretta e porta la mano alla pistola. C’è qualcun altro nel locale, qualcuno che non è Rosario né Kevin: qualcuno che deve essere cazzuto per davvero, se è riuscito a fottere due tipi come loro.

    (Hai fatto male i tuoi conti, amico, se pensi di fottere anche me.)

    Punta la Glock al buio e si muove tra due file di casse piene di alcool e armi, “il necessario per aprire una filiale in quel cazzo di quartiere, alla faccia dello Scozzese”, come da ordini di mister Gregucci in persona.
    Un soffio gelido lo accarezza, come se una finestra si fosse aperta a pochi passi da lui per portargli il saluto di una tempesta di neve.
    Volta la testa e vede, vicinissima, un’ombra con due fessure scintillanti al posto degli occhi. Il suo cuore dà un colpo così forte che sembra voler scappare via dalla bocca. Lou non fa in tempo a puntare la pistola: un colpo lo raggiunge allo stomaco e il soffitto prende il volo, si capovolge e prende il posto del linoleum. Lou finisce di gridare quando si morde la lingua sbattendo contro il pavimento: un sapore caldo e liquido gli riempie la bocca. Era un pugno quello che l’ha colpito? No, riesce a pensare tra ondate di dolore, era troppo forte.
    Alza gli occhi e fronteggia un’ombra nera con la forma di un uomo in soprabito e cappello. Per un attimo l’ombra sembra troppo grande, come di un gigantesco spaventapasseri, poi si ridimensiona. Quello che è certo è che non ha un martello tra le mani. E che il freddo arriva da lui, suggerendo a Lou un ricordo e un pensiero senza senso.
    Il ricordo è quello di suo padre Tom, che aveva una panetteria in Hampton Avenue: un brav’uomo, amato da tutti, ma non abbastanza furbo per il mondo che gli stava intorno. Gli spararono perché non riusciva a pagare il debito col signor Palmieri: un colpo alla testa davanti al suo forno, un’esecuzione che servisse da esempio agli altri negozianti del quartiere.
    In quell’attimo di stordimento e paura, Lou guarda l’ombra e pensa:
    è uno degli uomini di Palmieri. E’ venuto ad ammazzarmi per non lasciare te-stimoni.
    Scuote la testa per riprendersi, come un pugile all’angolo, rinchiudendo la pau-ra con il catenaccio. Se mister Gregucci viene a sapere che le ha prese da un concorrente ha chiuso, chiuso per sempre. Addio bei vestiti e belle macchine, addio puttane da trecento dollari a notte, addio ristoranti di lusso. E tutto per uno stronzo vestito da becchino che s’intromette nei suoi affari.
    Si rialza di scatto. Fa tre ore al giorno in palestra: pesi, sacco e kick boxing: è in forma e sa come difendersi. Il becchino avrebbe dovuto finirlo mentre era disteso a terra. Gli sferra un pugno, in piena faccia e con tutta la forza, e pregusta il rumore di mascella che si spacca. Invece il dolore gli esplode tra le dita quando colpisce qualcosa che ha la stessa consistenza di un muro di cemento. Uno scricchiolio incandescente conferma la sensazione di falangi spezzate.
    Lou arretra gridando, ma non abbastanza in fretta: una spinta violenta e dolorosa lo investe come un’auto, lo scaraventa contro un muro. Cerca di riprendere fiato, sputa un grumo caldo e umido: a fatica si rende conto che lì in mezzo ci sono anche diversi denti.
    Riconosce Kevin seduto accanto a lui contro la parete, la testa piegata di lato e gli occhi chiusi, come se dormisse. Poi si sente sollevare di peso. Le cuciture della giacca cedono, la tela si lacera come il mucchio di bigliettoni lasciato al sarto per cucirgliela. Ancora uno strappo, il volo finisce con un'altra botta che gli riempie la vista di macchie gialle e viola. Lou implora di svenire, così non sentirà più tutto questo male.
    Una morsa dura e fredda come acciaio lo afferra per il collo e lo schiaccia contro il pavimento. Vorrebbe chiedergli chi è, cosa vuole, ma con la bocca spaccata è difficile parlare. Quando apre le labbra, un rivolo di sangue scende a completare la devastazione del costosissimo abito:
    «Che cassho uoi?»
    Adesso che sono quasi faccia a faccia Lou riesce a vederlo bene: un uomo dal viso pallido e smunto, qualche capello grigio che brilla in una chioma nera.
    E gli occhi… non sono normali.
    Non sono umani.
    Per la prima volta dopo ventisette anni, Lou sta per piangere.
    «Che… uoi?»
    Gli risponde un sorriso, che schiude labbra esangui. E allora Lou capisce, capisce tutto, mentre l’orrore gli pietrifica corpo, cuore e anima.
    «Sei… ummm.. osfvo…»
    E lui, il mostro, lo Scozzese che Gregucci pensava di fottere, gli accosta il viso all’orecchio. Lou non sente il fiato soffiargli addosso, ma adesso che ha visto bene, adesso che ha capito, sa perché.
    Fissa impotente la Morte in persona che gli sussurra:
    «Sei tu il mostro. Mi fai ribrezzo.»
    Poi il suo dolore si squarcia insieme alla gola, soffoca l’ultimo grido d’agonia in un refolo sottile.

    ***

    3 novembre, 1:45 a.m., Chiesa di Santa Maria dei Miracoli


    Padre Robert si risveglia nel suo letto, con la sensazione che qualcosa gli sia andato di traverso in gola. Stava sognando e il sogno non era bello.
    Annaspa per riprendere fiato, per rendersi conto che il buio che lo circonda non è quello del sogno, e non ha alcuna correlazione con la Tenebra da combattere. Questo buio è concreto, reale, rispetta le leggi della natura, il susseguirsi del giorno e della notte.
    Un lampo rischiara la stanza attraverso le imposte della finestra. Un fragore cupo lacera il sottofondo scrosciante di pioggia.
    Il prete si domanda se sia stato un tuono a svegliarlo, insinuandosi nelle trame del sogno. Che sogno? Si affaccia un ricordo vago dell’Apostolo Paolo che indossava la corazza e il mantello rosso con cui lo raffigurano nei quadri, abiti da militare anche se era un cittadino romano. San Paolo parlava di qualcosa come “indossare le armi della luce”: parole di cui, dopo tutto, può rivendicare piena paternità, dal momento che sono quelle della Lettera ai Romani.
    Padre Robert ricorda di aver sognato le Trombe dell’Apocalisse, e in quel momento le Trombe si mettono a suonare. Ma lo fanno come le persone perbene: al campanello della porta d’ingresso.
    Il prete scende dal letto, infilando un paio di calzoni sul pigiama. Grida:
    «Eccomi! Sto arrivando!» il campanello continua testardo. «Arrivo, accidenti! Datemi soltanto un attimo!»

    (Se è di nuovo quel tossico che chiede spiccioli per il biglietto del bus giuro che gli spacco la faccia, Dio mi perdoni. Poi ci confessiamo tutti e due.)


    Padre Robert apre la porta facendo scattare il catenaccio; la spalanca, indeciso se cominciare dai rimproveri o direttamente dai cazzotti. Si trova di fronte un ragazzo spaventato dal viso sanguinante e pieno di lividi.
    «Buona se-sera, padre.»
    «Vieni dentro, figliolo! Cos’è successo, chi ti ha conciato così?»
    Il ragazzo non risponde. Ha in mano un biglietto di cartoncino bianco:

    “Buona sera, padre Robert.
    Questo ragazzo ha bisogno del suo aiuto.
    Per favore, non lo abbandoni.

    A.”
     
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    interessante luccs! l'ho letto a lavoro sull'iphone sei veramente molto bravo hai un stile particolare e delle idee molte buone mi paice! aggiornaci se vuoi ;)
     
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    grazie Ste, sono contento che ti sia piaciuto!
    la scelta di un prologo di questo tipo nasceva dall'idea di presentare il protagonista con molti occhi diversi che lo vedono in modi molto diversi...
     
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    discussione chiusa perché da troppo tempo inattiva
     
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