Creature dell'Altro Mondo

Racconto inventato

« Older   Newer »
 
  Share  
.
  1. .:Teva:.
        +1   -1
     
    .

    User deleted


    Prologo
    Nel presente

    Corri, corri, corri!
    Continuo a ripetermelo mentalmente come un mantra.
    Forza, solo dieci metri!
    Riesco a vedere l’ingresso al mio villaggio. È impossibile che un umano lo veda, per loro è solo un insieme di rami e foglie, perciò non possono accedervi. È così vicino… ma lo sono anche loro.
    Come faccio a essermi ridotta in questo stato in così poco tempo? Non che prima avessi una vita spensierata, chiariamoci, ma almeno non mi ritrovavo a fuggire da un trio di angeli guerrieri. Le altre volte a questo punto ero già catturata.
    Sì, avete capito bene, di angeli. Ma questo non è niente in confronto a quello che è successo prima.
    Tutto, perché avevo dovuto svolgere gli affari della mia insegnante/sorella, anche se poi la questione è diventata ben più complicata. In parte però è stata colpa mia e ora mi ritrovo con più problemi di un libro di matematica.
    Da ricordare: cambiare cervello il prima possibile.
    Sette metri!
    Senza accorgermene sbatto contro un albero. Ma da dove è spuntato? Oh, no, è stata lei. C’era da aspettarselo, come se tre angeli non fossero già abbastanza. Mi rialzo e inizio a correre al massimo della velocità, ma sono affaticata e inizio a rallentare. Mentre corro mi volto per vedere se mi stanno raggiungendo. No, maledizione, sono così vicini che se mi fermo, sono sicura, mi prenderanno. Due di loro si alzano in volo, le grandi ali bianche che risplendono nel cielo.
    Tre metri!
    Ce la posso fare, potrò ancora tornare a casa. Nella mia vecchia, brutta e pericolante casa, la casa che appartiene alla famiglia Philips da generazioni, che ho odiato finché non l’ho persa. Non la vedo da… da quanto? Sembrano secoli, ma in realtà sono passati solo tre mesi. Cerco di animarmi con il ricordo della mia sorellina, con i grandi occhioni verdi che mi aspetta a casa; del mio gatto, Micione (nome non molto originale, ma… be’ è così grande che quel nome gli si addice perfettamente), che riesce a dormire anche per dieci ore di fila, e del mio bel lettino, caldo e invitante…
    Finalmente! Attraverso il confine che separa il regno umano dalla mia città, Daeville. Finché i demoni stessi non lo permetteranno, nessun angelo potrà varcare quel confine. Sì, demoni. Io sono un demone e anche tutti gli abitanti di Daeville lo sono. Il mio bel villaggio…
    No! Cosa è successo? Non è mai stato così…
    Ci sono macerie ovunque, cadaveri sparsi lungo il ciglio della strada come se fossero aiuole, ma la cosa peggiore è il silenzio. Non è quel silenzio di serenità, quello dell’alba, con il sole che sorge e gli uccellini che cinguettano. Questo è un silenzio di morte e devastazione. È tutto troppo strano. Eppure il confine è intatto.
    Mary e Lauren! Devo vedere se stanno bene.
    Spero con tutto il cuore che stiano bene, perché sennò sarebbe colpa mia. Me ne sono andata, lasciandole da sola. Mi sono comportata da stupida accettando l’incarico che mi aveva assegnato mia sorella. Anzi, praticamente l’ho costretta ad assegnarmelo. E ora… non possono essere morte, devono essere vive.
    Attraverso la strada mentre un conato mi sale in la gola. L’odore… è peggio della vista. Ma non m’importa, continuo ad avanzare , svolto a destra e poi a sinistra. Sono costretta a scavalcare un cadavere, una donna ― o quel che ne resta ― con l’addome squarciato e la testa ad un paio di metri di distanza. È ricoperta di insetti, la carne è in decomposizione da almeno una settimana, e tramite lo squarcio si riescono ad intravedere le ossa e gli organi interni. Alla testa manca un occhio e un orecchio. Vai avanti, non farci caso, mi ripeto.
    Quasi svengo per quello che vedo.
    La mia casa è ancora lì! Ed è tutta intera! Sono così felice che quasi mi metto a saltare.
    Ora, però, devo controllare se anche le persone che ci abitano sono salve. Mi avvio a grandi passi davanti al cancello, scavalcandolo. Mi fermo davanti al portone antico. Devo bussare o non mi riconosceranno? A dire il vero non mi riconoscerei neanch’io, quindi… Ci sono! Da bambine io e mia sorella maggiore avevamo inventato un gioco. Utilizzavamo i passaggi segreti che ci sono nella mia casa, ci appoggiavamo al pavimento e iniziavamo a giocare. E, per riconoscerci, battevamo le mani sulla porta, tre volte velocemente e due lentamente, per finire, una botta finale. Devo solo colpire la porta.
    Ma mentre avvicino la mano, mi fermo. Cosa posso dire?
    Sorpresa! Non ci credete vero? Eppure sono proprio io!
    Non importa, io devo tornare dalle mie sorelle. Glielo devo. Così busso decisa. All’inizio non sembra che ci sia nessuno all’interno, ma dopo un po’ di tempo una ragazza apre la porta. Riconosco gli occhi verdi, i capelli rossi e quella spruzzata di lentiggini. Lauren!
    Prima che possa anche rendersi conto di qualcosa, l’abbraccio togliendole il fiato. Mia sorella è qui ed è viva.
    «Amara! Quanto mi sei mancata…» dice quando mi riconosce. «Sbrigati ed entra, non ti devono vedere», e mi chiude la porta alle spalle, sbarrandola. Sorvolo momentaneamente sul chi non mi deve vedere, e mi rendo conto di essere piena di nemici.
    «Cos’è successo qui, Lauren?» domando confusa. Lei è viva, ma in città quasi nessuno lo è.
    «Le spiegazioni dopo. Ora avviseremo del tuo ritorno Mary e Amelia e dopo Siria ti disinfetterà le ferite», dice e mi dà uno schiaffo. «Cosa ti è saltato in mente?! Hai pensato a noi? Sai quanto è stata in pena per te Mary? Non hai lasciato niente, non un messaggio, una lettera, ti credevamo morta!», esclama.
    «Io… mi dispiace», farfuglio. «Mi spiace moltissimo, non avrei voluto farvi stare male, ma io credevo che…» la mia richiesta di scuse viene interrotta da una vocina stridula: «Amara! Sei proprio tu? Non è un sogno vero?».
    Mia sorella Mary mi salta in braccio. Ha solo sei anni, il volto ricoperto di lentiggini e grandi occhi verdi. Le mancano due denti da latte e quando mi sorride vorrei ridere e piangere al tempo stesso.
    «No, sono proprio io. Ti voglio un mondo di bene» dico, stringendola ed affondando il viso nei suoi capelli rossi. Mi rendo conto di stare piangendo solo quando sento scorrere le lacrime sulle mie guance. Dopo pochi istanti che mi sembrano ore, mia sorella mi lascia e corre per la casa gridando: «Amara è tornata!».
    «Dopo ci spiegheremo tutto. Ora va’ in bagno e fatti aiutare da Siria a disinfettare le ferite. Nessuno ha cambiato nulla in camera tua da quando te ne sei andata».
    ***
    La mia camera è in stile antico, proprio come il resto della casa. Il pavimento è di legno scuro, le pareti decorate con un motivo a fiori. Il mio letto a baldacchino occupa ― insieme al vecchio comò di legno scuro ― la parete destra della mia camera. A sinistra, contro il muro ci sono uno scrittoio (che dovrebbe essere usato per appoggiarsi e scrivere lettere, ma… be’, non è il mio mezzo di comunicazione preferito), un armadio dello stesso legno del comò e uno specchio intagliato finemente. La parete difronte alla porta ha due grandi finestre, coperte da tende verde scuro che gettano ombre grottesche nella stanza. Tra lo specchio e lo scrittoio c’è la porta del mio bagno personale, ristrutturato dopo le mie continue suppliche. Prima c’era un’antiquata vasca da bagno e un vecchio lavandino, ora ci sono un armadietto per gli asciugamani, una modernissima doccia e un lavandino nuovo di zecca. Non che a me non piacciano i mobili antichi, ma tra quelli e quelli vecchi e rovinati c’è una bella differenza. Mia madre chiamava “preziosissimi pezzi da collezione” quelli che in realtà sono mobili rovinati dalle tarme e dal tempo.
    Attraverso la porta del bagno, ma prima prendo dall’armadio dei vestiti puliti: un paio di pantaloni verde militare e una canottiera grigia. Quando mi specchio rimango sorpresa: ho i vestiti sporchi di terra e fango, i miei capelli biondo chiaro che di solito porto leggermente ondulati sembrano lana. Non mi ero accorta di quanto fossero cresciuti. Di solito li portavo corti fino alle spalle, ma nei tre mesi precedenti –quando non avevo avuto tempo per pensare di tagliarli- erano cresciuti un bel po’.
    Ho molti tagli sulle braccia, un ginocchio sbucciato e un taglio sulla schiena. Anche sulla fronte ho un taglio, vicino alla radice dei capelli. E sicuramente mi sono slogata il polso.
    Lo ripeto, neanche se volessi, potrei riconoscermi. In questi ultimi tre mesi mi sono provocata diverse cicatrici, non che fossi stata chissà quale bellezza. Ho gli occhi viola, striati di grigio, ma sono sempre stata pallida, un po’ troppo. E a differenza delle mie sorelle, che hanno il volto ricoperto di lentiggini, a me spuntano solo stando al sole.
    Ho sempre avuto l’aspetto delicato, ma nessuno potrebbe dire che sono bella. Sono magra, troppo per i miei diciotto anni, ne dimostro a malapena sedici. Non assomiglio molto ai miei genitori, ho ereditato il fisico da mia nonna, mentre le mie sorelle sono la copia perfetta di mia madre. Io ho un aspetto tranquillo, loro solamente vedendole, si capisce che siano vivaci ed allegre.
    Qualcuno bussa alla porta e io smetto di esaminarmi. Dopo ci sarà il tempo per scrutarsi, mi ripeto.
    Siria entra, abbracciandomi. È la figlia di Amelia, la cameriera che aveva assunto mia madre, ed è mia coetanea. Siamo migliori amiche, sin dalla culla.
    «Sono contenta che tu sia tornata» dice osservandomi ed aggrottando la fronte.
    «Senza offesa, ma hai un aspetto terribile. Neanche quando cadevi dagli alberi ti riducevi così». Rido. Anche lei mi è mancata tantissimo.
    «Ti aiuto a disinfettare le ferite. Come te le sei fatte?» mi chiede, mentre si avvicina all’armadietto dei medicinale per prendere garze e disinfettante.
    «Te lo spiego dopo» rispondo, sedendomi su uno sgabello e preparandomi al dolore che proverò.
    «Chiamo mio zio. Dovrà sicuramente mettere dei punti nel taglio sulla schiena» dice e prende il telefono, componendo il numero del signor Thompson. Poi, inizia a disinfettare la ferita sulla fronte, che comincia a pizzicarmi. Se mi fossi provocata questi tagli pochi mesi fa, probabilmente sarei svenuta per la paura, ma il mio livello di sopportazione si è molto ampliato in quest’ultimo periodo.
    ***
    Sono seduta nel divano impolverato del soggiorno, circondata dai miei parenti –in casa mia vivo con le mie sorelle, mia nonna e mio cugino - e da Siria e i suoi genitori.
    «Ora, spiegaci cosa è successo» dice mia sorella, pronunciando lentamente ogni sillaba.


    1
    La casa abbandonata

    Ero seduta in terza fila, sull’erba del prato. Era l’ultimo giorno delle lezioni, il 16 Giugno, dopo ci sarebbero state le vacanze estive e tutti i demoni avrebbero dovuto mettere in pratica gli insegnamenti ricevuti durante l’anno. La mia classe era formata da dieci persone circa, avevamo due insegnanti una dei quali era mia sorella.
    Aveva ventitré anni e aveva iniziato a lavorare a circa venti per la sua bravura in storia. Un insegnante si occupava della teoria, quindi di storia, geografia, religione, scienza e lingue. Quell’incarico era assegnato a mia sorella, anche se ogni tanto svolgeva anche il secondo ruolo, che consisteva nell’insegnare a combattere ai giovani demoni.
    Io ero all’ultimo anno e dopo avrei potuto svolgere un corso di preparazione per combattere o uno per le materie “tradizionali”. Ovviamente, non avevo idea di quello che avrei voluto fare. Ma avevo tempo fino a Dicembre ― i corsi non sarebbero iniziati prima di Gennaio.
    «Amara Cassandra Viola Philips» sentii pronunciare il mio nome. Era giunto il momento dell’assegnazione del ruolo. Di solito i ruoli più difficili venivano assegnati a noi dell’ultimo anno. Mi allettava l’idea di combattere, ed era sempre meglio che venire assegnata in un ufficio e rimanere chiusa lì dentro tutta l’estate. Con un po’ di fortuna sarei riuscita a sbrigare il mio ruolo in un mese. Ero riuscita a parlare con mia sorella e a chiederle di assegnarmi un ruolo decente. A dir la verità, l’avevo supplicata. L’anno scorso ero stata incaricata della supervisione degli animali nell’aula di biologia. Potrebbe sembrare un compito semplice, ma arrivare a scuola più volte al giorno per dare da mangiare a due serpenti, tre rane e un topo ― iiih ― con trenta gradi all’ombra era stato stancante.
    Mi avvicinai ai miei insegnanti e presi il foglio con su scritto il mio ruolo. Poi tornai a sedermi e lessi lentamente:
    Amara Cassandra Viola Philips,
    incaricata di catturare e uccidere gli angeli violatori del confine a sud-est della città.
    Continuai a leggere. Sì! Avrei sbrigato il mio incarico e dopo mi sarei goduta l’estate. Quello che mi era stato assegnato era uno dei compiti più difficili da svolgere da sola e mi stupivo che l’avessero assegnato a me. Certo, avevo supplicato mia sorella, ma molte volte aveva rifiutato di assegnarmi un ruolo che mi piacesse. Inoltre, la decisione non spettava pienamente a lei, ma anche ad altri tre insegnanti, che negli ultimi giorni di lezione, di solito valutavano il comportamento degli allievi. Circa tre giorni prima cinque angeli avevano tentato di introdursi nella città, ma erano scappati. Ci avrei messo poco più di un mese per trovarli ed eliminarli. Non pensate che io fossi chissà quale strana macchina da guerra, ma gli angeli ci uccidevano e noi dovevamo difenderci. Gli angeli non erano come quelli che conoscevano comunemente gli umani: non avevano sempre visini paffuti e occhi azzurri, né erano sempre estremamente belli. E di sicuro non si mettevano a giocare in cielo. In realtà erano angeli guerrieri, incaricati di uccidere i demoni. Solo che noi demoni non eravamo più come quelli di una volta; non uccidevamo gente per il gusto di uccidere, anzi, non uccidevamo proprio. Ma vai a spiegarlo! In qualunque caso, io non ne avevo mai visto uno, ma a scuola ci spiegavano che era impossibile non riconoscerli, perché indossavano spade angeliche e tentavano in tutti i modi di ucciderci e indebolirci, poiché ci odiavano. Comunque, ero anche avvantaggiata: possedevo dei Poteri. Forse per questo avevano assegnato a me quel ruolo. I demoni, anche se raramente, possedevano dei Poteri. Io ero in grado di correre un po’ più veloce degli altri, ma il Potere più grande consisteva nella mia abilità di controllare il fuoco. Ovviamente non ero in grado di farlo apparire magicamente, ma potevo controllarne l’intensità e se mi impegnavo, anche estinguerlo. E se mi impegnavo sul serio, potevo anche trarre energia da esso, anche se non molta. Nel mio villaggio, solo i Governatori e i componenti della Famiglia Reale avevano i Poteri, ma loro li possedevano tutti. Perciò potevano controllare tutti e quattro gli elementi, inoltre avevano altri Poteri individuali, che variavano da individuo a individuo, come guarire nel giro di dieci minuti da una malattia che richiederebbe ore e ore di guarigione, o un’abilità incredibile nella lotta. Molto tempo prima, inoltre, un demone era stato in grado di viaggiare nel tempo. Proprio per i loro Poteri, i Governatori anticamente erano stati scelti come capi, ma il nostro era un villaggio molto piccolo, perciò, anche se abitavano qua, i membri più importanti spesso sbrigavano i loro affari fuori Daeville, nei villaggi principali. Inoltre, Daeville era nel bel mezzo del nulla, mentre gli altri villaggi si trovavano vicino ad insediamenti umani, dove era necessario nascondere la propria identità. Anche se molte città conosciute anche dagli umani, erano composte interamente da demoni, specialmente in Australia e in Alaska.
    Anche se, pensai, non posso mandare a fuoco l’intero bosco per catturare quegli angeli.
    Stavo ancora pensando al mio incarico, quando Siria mi riportò alla realtà, domandandomi: «Che incarico ti hanno assegnato?».
    «Catturare e uccidere gli angeli che hanno violato il confine a sud-est», risposi. Decisi che avrei domandato a mia sorella il motivo, anche se dubitavo che mi avrebbe risposto.
    «Oh. Io invece devo riordinare gli uffici. Certo che sei stata fortunata, potrai andare al mare o in montagna, mentre io me ne starò qui a marcire tutta l’estate con un gruppo di ragazzi sfigati e ragazze noiose».
    «Ti divertirai. Vedrai che in un mese avrai finito tutto», cercai di consolarla. Poverina.
    «In un mese? Sai che ci sono centinaia di studenti in questa scuola vero? “Mi divertirò”? Sì e la Terra è piatta», disse, sospirando.
    Ci incamminammo verso casa mia. Io e Siria eravamo migliori amiche da sempre, ma eravamo l’opposto l’una dell’altra. Io ero pallida, bassa e bionda, lei invece era alta, forte e con una carnagione olivastra che poteva competere con quella di un’imperatrice egiziana e i capelli neri che le ricadevano in morbidi boccoli e svolazzavano al vento. Quel giorno io li avevo legati in una treccia disordinata ed avevo fatto da poco dei ciuffi colorati viola, della stessa tonalità dei miei occhi. Non mi piaceva mai portare la stessa pettinatura per molto tempo, perciò li legavo, li arricciavo o coloravo delle ciocche come un’emo.
    Quando arrivammo a casa, lasciammo lo zaino nel soggiorno e uscimmo in giardino.
    Era una bella giornata, molto rara anche in estate nel nostro villaggio, di solito sede di nebbia talmente fitta da poter essere tagliata.
    «Vieni, facciamo una passeggiata», mi disse Siria.
    «Sono stanca», dissi, cercando di dissuaderla. Non avevo voglia di uscire di nuovo, eravamo appena tornate.
    «Non fare l’eremita. Ti riposi dopo, ora vieni, devi vedere una cosa», disse, praticamente trascinandomi verso il cancello.
    «Ho sonno, voglio andare a letto. Non possiamo uscire dopo?», tentai ancora.
    «Hai sonno? Sei pazza, non è ancora tramontato il sole! E comunque, no, non possiamo, perché io dopo sarò segregata in un ufficio a riordinare cartelle in ordine alfabetico. Quindi, muoversi gente, animo!»
    Mi guidò in una stradina, che si inoltrava nell’unico bosco che circondava il villaggio. Vicino doveva scorrere un fiume, perché si sentiva il rumore dell’acqua. La terra era umida e ricoperta di muschio, e i rametti scricchiolavano sotto i miei piedi, immersi nel fango…
    «Maledizione!», esclamai, osservando i piedi.
    «Che c’è?» mi domandò Siria.
    «Avevo le scarpe nuove!», dissi, e Siria quasi si mise a ridere della smorfia che feci.
    Passammo davanti ad alcune grotte buie e dall’aspetto sinistro e attraversammo un ponte. Poi, Siria si inoltrò ancora di più nel bosco, fino a fermarsi davanti a una vecchia casa di legno, e io la seguii. Il soffitto era crollato, un muro era stato buttato giù, e i rampicanti ricoprivano completamente la rimanenza della struttura. Ma la cosa sorprendente era proprio che quella casa si trovasse lì: nel bel mezzo del nulla.
    «Che ci fa qui una casa?», domandai. E perché ci teneva tanto a farmela vedere? Siria era sempre stata affascinata dai misteri, perciò da bambine ci divertivamo tantissimo ad esplorare i passaggi segreti di casa mia, ma… Insomma, eravamo cresciute! E poi, come aveva fatto a scoprire quel posto?
    «Io che ne so», mi rispose Siria, alzando le spalle. «Devi vedere quello che c’è dentro», disse, quindi scavalcò un ammasso di macerie.
    Io la seguii e rimasi ammutolita da ciò che vidi.
    «Che cavolo significa tutto questo?», le domandai, sapendo già che non avrei ottenuto una risposta. Siria era schietta e andava sempre al punto, se non mi aveva detto subito il motivo o anticipato qualcosa era perché non lo sapeva. E infatti…
    «Non lo so. L’altro giorno ho sentito delle grida e sono corsa qui e ho trovato questo…»
    “Questo” era una stanza piccola e impolverata, molto simile alle camere di tortura medioevali. C’era un tavolino con strani strumenti metallici, affilati e a punta, che avevano un aspetto sinistro, molti di essi erano anche incrostati di una sostanza che ― oddio! ― sembrava proprio sangue. Anche le pareti erano incrostate di quella strana sostanza. E in un angolo c’era una gabbia, talmente piccola da poter contenere a malapena un ragazzo di media corporatura. E sembrava che servisse proprio per quello, anche se nulla avrebbe potuto dimostrarlo. Guardando più attentamente notai un particolare: per terra c’era un libretto, piccolino e coperto di macerie, ma sembrava che qualcuno lo avesse ricoperto appositamente, e non che il tetto fosse caduto, perché era nascosto e conservato dentro un telo, che spostai subito. Quando lo aprii notai strani simboli scritti ad inchiostro nero e dei numeri. Sembravano molto un codice. Inoltre, nell’ultima pagina era scritta la data : 13 Giugno.
    Strano, ma quella data mi suonava stranamente familiare. Chiusi di nuovo il quadernino, ma non mi diedi per vinta, sarei riuscita sicuramente a capire il significato di quei simboli.
    «Dobbiamo dirlo a qualcuno», dissi a Siria. «Non mi piace questo posto, e si capisce che sia successo qualcosa di davvero molto brutto», continuai, dando molta enfasi alla parola “davvero”.
    «È inquietante», aggiunse lei. «Ho un brutto presentimento».
    Oh-oh.
    Siria non aveva Poteri, ma aveva un sesto senso per queste cose. Era come se riuscisse a percepire in anticipo le cose, ma a non comprenderle fino in fondo. E di solito si avverava tutto.
    «Usciamo da qui» replicai. Quel posto non piaceva neanche a me, mi dava un senso di claustrofobia.
    ***
    Quando tornammo a casa, decidemmo di farci una bella doccia per togliere via il fango. La sera, a cena, dicemmo tutto a mia sorella. Lei non sembrò sorpresa dalla nostra rivelazione, anche se non era facile sorprenderla. Disse che ne aveva già parlato ai Governatori, e che comunque qualcuno “avrebbe sistemato la cosa” (parole sue, non mie). Iniziai ad avere dei dubbi, forse avevamo fatto male a dirle tutto. Magari ci sbagliavamo e non era sangue quello sulle pareti. O magari era la scenografia di un film. Magari anche i Governatori credevano questo. Andai a letto continuando a pensare alla situazione, quando finalmente trovai una conclusione: la casa si trovava vicino al confine, quindi l’indomani avrei svolto il mio incarico e ne avrei approfittato per controllare meglio la casetta. Potevo sempre trovare altri quadernini, scritti in qualche lingua comprensibile possibilmente. Stavo ancora pensando, quando mi addormentai.

    Edited by .:Teva:. - 15/2/2014, 14:30
     
    Top
    .
  2. .:Teva:.
        +1   -1
     
    .

    User deleted


    2
    Strano incontro
    L’indomani mi svegliai all’alba. Ero eccitata all’idea di combattere, e volevo chiarire il mistero della casetta. Così, feci colazione in fretta e furia e andai a fare una doccia, infine indossai vestiti comodi ― una maglietta nera, una giacca che aveva visto giorni migliori, un paio di jeans e le scarpe da tennis che avevo usato il giorno precedente ― e cominciai a preparare uno zainetto. Probabilmente avrei controllato il perimetro del confine fino a sera tardi, quindi infilai anche una scatola di fiammiferi, nel caso avessi dovuto fare fuoco. Misi dentro anche una cartina: le mie conoscenze geografiche erano ristrette, nel bosco perdevo l’orientamento e non riuscivo a memorizzare il nome di una semplice città. Per capirci meglio: fino a qualche anno fa pensavo che Chinatown fosse un ristorante cinese. Continuai a riempirlo delle cose necessarie, come un coltellino per difendermi e una bussola. Scesi le scale e andai in cucina, a salutare Lauren che si era già svegliata.
    «Stai attenta», mi disse, preoccupata. «Sì», risposi.
    Stavo per varcare la soglia dell’uscita, quando mi chiamò. Tornai indietro e mi fermai davanti a lei.
    «Un altro», disse lanciandomi un’occhiata preoccupata e all’inizio non capii se stesse parlando con me. Poi mi salutò e questa volta mi lasciò uscire.
    Mentre percorrevo il sentiero fangoso, stavo ancora riflettendo sulle sue parole. “Un altro” poteva significare molte cose. Poi capii: si riferiva ad un’altra persona scomparsa. In quel periodo nel mio villaggio le cose stavano andando molto male, gli angeli erano sempre più numerosi e molti ragazzi che si avventuravano nel bosco scomparivano. Ne erano già scomparsi dieci dall’inizio dell’anno, e mi stupivo che i Governatori non avessero stabilito un coprifuoco. Continuai con le mie riflessioni fino a mezzogiorno. Avevo percorso due volte il confine, ma non c’era traccia di angeli. Decisi di fermarmi a bere un sorso d’acqua, quando sentii un rumore, come quando si calpestano dei rami.
    Ok, non diventare paranoica, mi dissi. Non avevo visto ancora angeli, era impossibile che fossero sbucati dal nulla. Drizzai le orecchie e diventai attenta a ogni singolo rumore.
    Quasi mi misi a gridare quando un uccellino si posò su un ramo per terra vicino a me.
    Visto, era solo un uccello, pensai. Stavo iniziando a sentirmi ridicola per aver provato tutta quella paura, quando sentii di nuovo lo stesso rumore, solo che molto più forte. Mi alzai dal tronco sul quale mi ero seduta, presi il coltello, misi lo zaino in spalla e mi avvicinai al punto dal quale avevo sentito provenire il rumore. Non c’era niente di strano, e mi stavo tranquillizzando, quando vidi qualcosa a terra, dietro un cespuglio.
    Mi avvicinai di più e spostai le foglie, attenta a non fare rumore. Avevo paura di infrangere quel silenzio, ma i miei sforzi furono vani, perché gridai non appena mi accorsi che non c’era qualcosa, ma qualcuno.
    Era un ragazzo più o meno di vent’anni, con i capelli nerissimi e arricciati sulla fronte, scompigliati, una fossetta sul mento e l’incarnato chiaro. Non sembrava ferito gravemente, aveva solo un taglio vicino alla tempia destra e uno sull’avambraccio. Ma era… strano. Non intendo dire che avesse il naso al posto degli occhi, anzi era molto bello, ma aveva qualcosa di strano. Riuscivo a percepirlo.
    All’improvviso, si mosse. Si alzò, molto velocemente, nonostante le ferite e si portò una mano alla testa. Solo allora si accorse di me, e sgranò gli occhi, blu come il cielo di notte, quasi neri, osservandomi. Aveva una leggera gobba all’altezza della radice del naso, e capii che doveva esserselo rotto recentemente.
    «Chi sei?», domandò. Io stavo per rispondere, quando qualcosa mi fece fermare proprio mentre aprivo la bocca. La sensazione stava diventando sempre più forte e avevo un brutto presentimento.
    «Piuttosto chi sei tu», dissi. «Lo spirito della foresta, o magari sei piombato giù dal cielo?» domandai. Idiota, che fai scherzi con uno sconosciuto? Potrebbe pure essere un maniaco o un serial killer!, pensai.
    «Forse» disse lui. Forse? Ma stiamo impazzendo? Non esistevano neanche gli spiriti!
    «Che ci fai qui?» mi chiese. Piuttosto avrei dovuto chiederlo io, ma lasciamo stare che è meglio.
    «Niente» risposi, alzando le spalle. Sembrò sorpreso dalla mia risposta, ma non aggiunse altro.
    «Ti fanno molto male le ferite?», domandai. «Dovrei avere qualche garza da qualche parte nello zaino», dissi.
    «No, non è niente. Sembra strano che una persona che non faccia apparentemente niente vada in giro con uno zaino pieno di garze», rispose.
    «Non sono affari tuoi» dissi. Alzai la testa per osservare la sua reazione, ma mi accorsi di un piccolissimo ― ma proprio minuscolo ― dettaglio. Le sue ferite erano sparite completamente. Al posto del taglio vicino alla tempia era rimasta solo una cicatrice, l’unica cose che mi fece capire di non essermi immaginata tutto fu la macchia di sangue che la ricopriva.
    «Le ferite sono scomparse… Hai il Potere della guarigione?» domandai.
    «Forse» rispose. Poi si alzò, e solo allora mi accorsi che anche i pantaloni erano macchiati di sangue, vicino al ginocchio, ma lui non sembrò farci caso.
    «Chi sei?», ripetei. Non volevo chiederlo, ma la curiosità ebbe il sopravvento.
    «Non posso dire chi sono», mi rispose. Stavo per alzarmi anche io, ma poi aggiunse: «Forse potrò dirlo se mi dici chi sei tu».
    Cosa dovevo fare? Era un perfetto sconosciuto, e avevo ancora quella strana sensazione, quindi decisi di non rispondere.
    Dalla mia bocca, però non uscirono le parole che avrei voluto sentire: «Mi chiamo Amara e abito al villaggio qui vicino».
    Stupida, stupida, stupida!
    «Io sono David», disse lui. Mi alzai anch’io e notai che era molto alto, almeno due metri, e io non gli arrivavo neanche alle spalle.
    «Da quale parte del villaggio vieni?» domandò.
    «Dimmi da dove vieni tu», ribattei. «Facciamo così, io ti dico una cosa e poi me la dici tu. Mi sembra giusto, no?», chiese.
    «Ok», mormorai. Stavo per ripetere la domanda, ma lui fu più veloce di me. «Quanti anni hai?», mi chiese. «Diciotto. Tu?» risposi.
    «Diciotto? Non sembra… Comunque ho ventiquattro anni», disse.
    «Che ci fai qui?», continuò. «Uhm… Una passeggiata nel bosco?» la mia sembrò più una domanda che una risposta.
    «Certo, certo», disse, come se mi stesse assecondando. «Tu che ci fai qui?», domandai.
    «Sei un demone?», mi chiese. «Non hai risposto alla mia domanda», dissi.
    «Sei un demone?», ripeté. «Forse», risposi, utilizzando la sua stessa tattica.
    «Ora scusami, strana creatura del bosco, ma devo continuare la mia passeggiata», dissi.
    «Ti dispiace se vengo con te, possibile demone?», domandò.
    «Oh, certo che mi dispiace», stavo per rispondere, ma invece scossi la testa e gli dissi di venire. Credevo che sarebbe stato un peso averlo dietro, soprattutto perché era stato ferito e molto probabilmente doveva stare male, invece dovetti ricredermi. Quando tramontò il sole, capii che non avrei trovato nessun angelo per quel giorno. Con ogni probabilità erano già scappati. David nel frattempo si muoveva guardandosi intorno, come se qualcuno potesse sbucare dal nulla e saltargli addosso. Continuammo a camminare in silenzio fino alla sera, poi ci sedemmo su un tronco caduto a terra. E, ovviamente, non lasciandomi neanche il tempo di bere, lui iniziò di nuovo con quella specie di interrogatorio.
    «Certo che è stata una passeggiata piuttosto lunga», disse.
    Poi continuò: «Sei sicura di stare passeggiando semplicemente?»
    «Certo», risposi, con il tono più sicuro che riuscii ad utilizzare. Non capivo ancora cosa importasse a lui. «Tu invece che stavi facendo?», domandai.
    «Vuoi la verità?», mi chiese. Certo, che razza di domanda era quella!
    «C’è bisogno di chiederlo?», domandai a mia volta. «Giusto, giusto. Il fatto è che non ti posso dire questo», ribatté. «Chiedimi tutto quello che vuoi, ma a questo non posso rispondere».
    «Da dove vieni?», continuai. «Da qualche parte», fu la sua risposta.
    «Cosa c’è, strano ragazzo dei misteri, non puoi rispondere neanche a questo?», domandai.
    «No, infatti», rispose, mentre un sorrido beffardo gli compariva in viso. «Ora tocca a me. Che scuola frequenti?», domandò. «La Scuola di Preparazione per Giovani Demoni», risposi, forse un po’ troppo in fretta. Nel mio villaggio c’erano solo due scuole, la mia, fatta apposta per i demoni, e una molto simile a quelle umane, fatta per tutti i demoni che avessero avuto l’intenzione di lavorare in uffici, ospedali e cose del genere. E, quella scuola iniziava a Novembre e finiva a Luglio.
    «Quindi stavi svolgendo il tuo incarico, vero Amy?», domandò. Aveva capito tutto! Che stupida! Stavo per negarglielo, ma invece risposi: «Chi sarebbe Amy?». Incosciente, pensai. Tra tutto, quello che ti infastidisce di più è come ti chiama, stupida!, mi rimproverai mentalmente.
    «Ovviamente tu», rispose. «Non mi chiamare in quel modo» dissi, cercando di sembrare minacciosa. «Ma ti si addice perfettamente: un nome piccolo per una persona piccola», replicò.
    «Quindi tu dovresti avere un nome chilometrico, giusto? È il ragionamento più stupido che qualcuno abbia mai fatto», risposi. «E sono sicuro che ora dirai che sono la persona più stupida che tu abbia mai incontrato, vero?», mi chiese. «Ci puoi scommettere», borbottai.
    «Allora?», chiese. «Cosa?», domandai a mia volta.
    «Stavi svolgendo il tuo incarico, vero?», ripeté.
    Farfugliai una risposta tra un sì e un forse. «È meglio che tu vada a casa ora, o i tuoi genitori si preoccuperanno», mi disse. «No, posso rimanere qui fino a mezzanotte. Sai che ore sono?», domandai. Non riuscivo a vedere niente, tanto fitta era la vegetazione.
    «Tardi», rispose. «Comunque, visto che non vuoi tornare a casa… Hai fratelli o sorelle?», mi chiese.
    «Ci risiamo» borbottai, alzando gli occhi al cielo, mentre un altro ghigno gli compariva in viso, poi aggiunsi: «Ho due sorelle, Mary e Lauren. Tu?» «No, non ho fratelli o sorelle. O almeno nessuno qui» «Che vuoi dire?», domandai aggrottando la fronte.
    «Avevo un fratello minore. È stato ucciso insieme ai miei genitori», disse, e preferii non domandargli altro. «I tuoi genitori, invece? Parlami di loro», mi chiese. «Mia madre e mio padre erano ok. Mia madre aveva la fissazione dei mobili antichi e mio padre l’assecondava, ma tranne questo erano normali, come tutti i genitori», risposi. «Non hai speso molte parole in merito loro», disse. «Non li ricordo molto bene. Sono stati uccisi poco dopo la nascita di Mary», aggiunsi. «Mi dispiace», disse. «Anche a me dispiace per tuo fratello e i tuoi genitori». Rimase un po’ in silenzio, poi mi disse: «Di me ti puoi fidare».
    «Vorrei tanto poterlo fare, ma mi è stato insegnato sin dalla culla a non fidarmi degli sconosciuti, specialmente se non so da dove vengono».
    «Spero che cambierai idea. Mi farebbe piacere conoscere qualcuno di questo villaggio».
    Aspettai ancora un po’, poi tornai a casa. David mi salutò e io lo lasciai nel bosco, chiedendomi dove sarebbe andato.

    Edited by .:Teva:. - 15/2/2014, 14:31
     
    Top
    .
  3. .:Teva:.
        +1   -1
     
    .

    User deleted


    3
    Troppi inganni
    Il giorno dopo, mi svegliai più tardi e decisi che prima di perlustrare per la milionesima volta il confine, avrei fatto una passeggiata. Siria era già uscita per andare a svolgere l’incarico, perciò portai Micione con me, per non rimanere completamente sola. Mentre passeggiavo, incontrai Dora Smith. Io e lei non andavamo molto d’accordo, lei era figlia di un medico e di una dottoressa, aveva capelli biondo miele, lisci, era alta e abbronzata. Ed era una snob di prima categoria. Stava passeggiando con due ragazze che sembravano la sua copia ed appartenevano al suo gruppetto, e mentre mi vide si mise a ridacchiare. Ah, giusto, loro vestivano con abiti di stilisti famosi del mondo umano, e di quello dei demoni, mentre io quel giorno indossavo una camicia rosso sangue, dei jeans strappati e degli stivali che probabilmente sembrava che fossero stati presi a calci da due calciatori al posto del pallone; e che erano completamente l’opposto dei loro abitini graziosi e delle scarpette costose. Le fulminai con un’occhiataccia e affrettai il passo. Le due ragazze ai lati di Dora si zittirono, ma lei si avvicinò a me e dopo loro la seguirono.
    «Guarda, guarda, c’è la piccola Amara», fece lei. «Ciao vecchia Dora», la salutai, digrignando i denti.
    «Senti, se vuoi ti posso portare dal mio parrucchiere. So che non vuoi passare inosservata, ma attirerai l’attenzione di tutti con quei ciuffi viola. Non ti sembra di esagerare? Metterai in risalto la tua scarsa bellezza», continuò lei, mentre la ragazza alla sua destra aggiunse: «E poi, con quei jeans aderenti! Non sei troppo magra per portarli? Sembri uno spaventapasseri».
    Stavo per chiuderle con un pugno quella bocca da oca che si ritrovava, ma Micione le saltò addosso, anche se lei lo schivò, mentre la ragazza alla sinistra di Dora disse: «Che stivali stupendi quelli! Peccato che si addicano così poco a te, sono fatti per una persona stupenda non per una ragazzina come te. Ovviamente scherzavo, fanno schifo, perciò ti si addicono perfettamente», mi bloccai e Dora continuò il suo discorso dicendo: «È inutile che li metta tu. Ti posso suggerire un bel tacco alto? Così, magari riuscirai a camuffare la tua bassa statura».
    «E io ti posso suggerire di chiudere quella bocca con dello scotch? Farai una figura stupenda, vedrai», replicai. «Ah, la piccola Amara fa la spiritosa. Ha ragione mia madre, diceva che i tuoi genitori erano dei cafoni, e tu sei la loro copia», ribatté lei.
    Adesso. Basta.
    Era più grande di me di pochi mesi, e frequentava l’altra scuola, ma ci conoscevamo perché mio padre era collega con il suo e da bambine ci avevano obbligato a frequentarci. All’inizio andavamo d’accordo, ma poi lei iniziò a prendere in giro Siria, che era già la mia migliore amica. Io reagii male e le diedi un pugno in pancia, da allora diventammo nemiche.
    Mi avvicinai a lei e la spinsi contro il muro di una casa, bloccandole il petto con il gomito. Era più robusta di me, ma non sapeva combattere, perciò i suoi sforzi di liberarsi furono inutili.
    «Non ti azzardare a parlare male dei miei genitori, stupida stronzetta», dissi, scandendo ogni parola e aumentando la pressione sul suo petto. Le due ragazze se la svignarono, mentre lei rimaneva immobile, osservandomi terrorizzata.
    «Capito?», continuai. Lei si mise a ridere. «Non credere di passarla liscia. Probabilmente Sharon e Mona saranno già andate a chiamare qualcuno, e comunque io sto dicendo la verità». Non mi feci intimorire e dissi: «Allora, visto che sono andate a chiamare qualcuno e in qualunque caso non ho scampo, tanto vale che ti faccia un servizio completo, no?».
    Lei sbiancò, impaurita all’idea di ritrovarsi il faccino deturpato, tentò di opporre resistenza e di liberarsi, ma io fui più veloce e la bloccai.
    «Hai capito?», ripetei. «S-sì», rispose a voce bassa. La liberai, e solo allora mi accorsi che delle persone ci stavano osservando. Più che altro erano ragazzi e ragazze della mia età, che come me non sopportavano Dora, perciò fecero finta di niente. Solo le amiche di Dora si avvicinarono a noi, stavano aprendo la bocca sicuramente per dire qualcosa di offensivo, ma io mi voltai verso di loro e gli indicai il mio pugno. Si zittirono e si avvicinarono a Dora.
    A quel punto sarei dovuta tornare a casa, per informare mia sorella dell’accaduto, prima che l’informassero i genitori di Dora con chissà quale storia inventata, ma preferii incamminarmi nel bosco. Dissi a Micione di fare il bravo gattino e di tornare a casa, che era vicina, perciò non si sarebbe perso tanto facilmente. Quel giorno non avevo con me né la cartina né lo zaino, ma non me ne fregava niente, volevo solo prendere a calci qualche pietra per non rischiare di rompere il naso a qualcuno. Credetemi, io non ero un tipo aggressivo, solo che non riuscivo a tenere la bocca chiusa e non sopportavo che si parlasse male dei miei genitori. Potevano dire quello che volevano di me, ma nessuno si doveva azzardare a parlare male di loro, e questo Dora lo sapeva bene. Solo che ne aveva approfittato, forse credendo che mi sarei messa a piangere o chissà che cosa. In realtà io non ero un tipo molto delicato, anche se il mio aspetto poteva suggerire proprio quello. Guardandomi una persona sentiva l’impulso di proteggermi, in realtà lo sapevo fare bene anche da sola. Da bambina forse avrei avuto bisogno di una persona che mi aiutasse, e mi mettevo spesso a piangere, ma quando i miei genitori morirono, imparai a cavarmela da sola. E la loro morte fece anche aumentare il mio desiderio di vendetta contro gli angeli. Furono uccisi proprio da uno di loro, io non ricordo molte bene l’accaduto. Ero a casa con le mie sorelle, so solo che morirono lasciandomi sola. Venni affidata ad Amelia ― così aveva chiesto mia madre prima di morire ― che si comportò come una seconda madre, ma era ovvio che nessuno potesse sostituirla.
    Senza accorgermene, immersa nei miei pensieri, avevo raggiunto la casa abbandonata. Decisi di entrare, per controllare meglio, ma mi fermai perché sentii dei rumori provenire da dentro. Mi avvicinai in punta di piedi, e notai qualcuno che cercava qualcosa nella “stanza degli orrori” scoperta da Siria. Quella persona si girò verso di me, e io per poco non gridai, ma mi limitai a sobbalzare e nascondermi dietro la parete, sperando che non mi avesse vista.
    «Chi c’è?», chiese una voce, che mi sembrò familiare. Sbirciai da dietro la parete e rischiai seriamente di svenire.
    A terra c’era un corpo, o meglio, ciò che ne restava: un insieme di ossa annerite e cenere. E sopra quel “corpo” c’era un ragazzo. David! Allora apparteneva a lui quella casa. Portai una mano alla bocca, perché stavo per gridare, e camminai in punta di piedi fino all’uscita, sperando di non essere vista. Purtroppo quel giorno la fortuna non era dalla mia parte, perciò mentre attraversavo la porta me lo ritrovai davanti. In mano aveva una spada, non una spada qualunque, ma di quelle che usavano gli angeli per uccidere noi demoni. Che ci faceva con quella?
    Il mio primo impulso fu quello di dargli un calcio e scappare, solo che cambiai idea. Indietreggiai lentamente, calpestando qualunque cosa capitasse, attenta solo a non perderlo di vista.
    Troppo tardi. Scomparve dalla mia vista, e in pochi secondi, mentre camminavo ancora all’indietro, andai a sbattergli contro. Notai che non aveva più la spada in mano, perciò non ci pensai due volte e gli diedi una gomitata dritta in pancia, poi mi misi a correre al massimo della velocità.
    Due erano le possibilità: o era un angelo e aveva appena ucciso un demone, o era un demone che era stato attaccato da un angelo, ma era riuscito a difendersi e gli aveva rubato la spada, per poi usarla contro il suo stesso proprietario. E una mi sembrava più probabile dell’altra.
    Iniziai a stancarmi, ma non avevo intenzione di fermarmi. Volevo raggiungere casa mia al più presto, chiudermi dentro, sbarrare porte e finestre, e nascondermi in qualche posto.
    ***
    Quando finalmente arrivai a casa mia, Siria era già tornata, ed erano tutti dentro, perciò chiusi il portone e mi fermai un secondo a respirare, appoggiandomici sopra. Quando presi abbastanza fiato per parlare, mi resi conto che tutti gli abitanti di quella casa, mi stavano guardando come se fossi pazza. E in effetti, riuscii solo a farfugliare qualche parola, mentre ero ancora ansante, perciò avevano tutto il diritto di dirlo. Raccontai loro solo vagamente ciò che era appena successo, e salii in camera mia. Mi sdraiai sul letto, pensando a quanto fossi stata fortunata a non aver sperimentato quella lama sulla mia pelle. Ero stata una stupida a non fidarmi di quella sensazione, nelle migliore delle ipotesi David era un serial killer, e nella peggiore un angelo. Eppure, non mi aveva fatto del male. Ma molto probabilmente, voleva solo divertirsi un po’, magari aspettando che mi fossi fidata cecamente di lui, per poi ridere osservando il mio sguardo terrorizzato mentre mi uccideva. Mi chiusi a chiave e infilai il pigiama. Stavo per sdraiarmi sul letto, quando mia sorella bussò. Era Lauren, e mi stava sgridando per quello che era successo con Dora questa mattina. Vedendo che non le aprivo la porta, se ne andò, dicendo che prima o poi avrei dovuto aprire quella porta e uscire, e allora lei mi avrebbe fatto pagare la mia incoscienza. Sapevo che mi voleva bene, e che lo faceva solo per questo, ma ero talmente infuriata che infilai la testa sotto il cuscino, in modo da non sentirla. Poco dopo bussarono di nuovo, ed ero pronta a cacciare via Lauren nuovamente, solo che mi accorsi che nessuno bussava alla porta. Probabilmente stavano usando un passaggio segreto di casa mia. Mi avvicinai all’armadio, spingendo via la parete di fondo, e mi ritrovai Siria davanti. Le nostre camere erano unite da un passaggio segreto, a cui era possibile accedere solo tramite gli armadi.
    «Come va?», mi domandò, sedendosi sul mio letto.
    Avrei potuto rispondere “bene” e fingere di non avere niente, o dirle la verità, però non avevo voglia di parlare, perciò mi limitai ad alzare le spalle e a dire: «Mi sento come se un lottatore di sumo mi fosse piombato addosso e come se mi avessero immerso nell’acido, ma a parte questo sto splendidamente».
    «Cosa è successo?» mi chiese. Potevo mentirle, ma non mi piaceva l’idea di non dirle la verità, perciò le raccontai brevemente gli eventi degli ultimi due giorni. Le dissi quello che avevo visto nella camera delle torture medioevali e come ero stata incosciente a fidarmi di uno sconosciuto.
    Fortunatamente Siria non era come Lauren, e capiva quanto fossi sconvolta, perciò rimase in silenzio senza sgridarmi o urlare che fossi una folle incosciente senza scrupoli.
    Poco dopo, mi guardo da capo a piedi e solo allora mi accorsi di aver messo i pantaloni del pigiama non abbinati dalla maglietta, messa al contrario.
    Non so perché, probabilmente stavo diventando pazza, però mi misi a ridere come se il comico più famoso del mondo fosse venuto in camera mia. Probabilmente non mi sentirono solo sulla luna.
    Poi Siria mi lasciò dicendo di riposare un po’ e mi infilai sotto le coperte.
    Mi addormentai molto tardi, ma non fu un problema, visto che qualche vandalo in strada pensò di fare talmente rumore ― un insieme di grida e urla e risate sguaiate ― da svegliare anche la bella addormentata.
    Andai a chiudere la finestra ― ero talmente addormentata che non mi ricordai di averla aperta ― per mettere fine ai rumori, o almeno attutirli, perché probabilmente avrei continuato a sentirli anche se mi avessero messo dei tappi per le orecchie di cemento.
    Quando tornai nel mio stato di sonno senza sogni, fui svegliata nuovamente. Maledicendo la mia sfortuna, cercai di capire cosa avesse fatto rumore.
    Era stata la grande finestra, che avevo chiuso, ma in quel momento era spalancata. Ma non mi preoccupai, era una finestra vecchia e di sicuro stavo diventando sonnambula, anzi molto probabilmente lo ero diventata. E sicuramente avevo anche le allucinazioni, altrimenti come spiegare la sagoma nell’oscurità che avevo appena visto? O la voce che sentii? E non era la voce di mia sorella, o di Amelia o di chiunque altro mi sarei aspettata sulla Terra, ma era la voce che più mi spaventava.
    Scesi dal letto in un secondo, e mi avvicinai alla porta tentando di aprire la serratura e maledicendomi per essermi chiusa. Il passaggio nell’armadio era da escludersi a priori, avrei impiegato ancora più tempo per accedervi e non volevo condurre quell’essere spietato nella camera di Siria. Mi misi a gridare come una forsennata, parole senza senso, solo per essere sentita. Ma non appena emisi il primo suono, qualcuno mi bloccò la bocca con una mano. Tentati in tutti i modi di scappare, morsi quella stramaledetta mano, diedi pugni, calci e gomitate , ma non riuscii a liberarmi dalla morsa d’acciaio che mi bloccava. Com’era possibile che qualcuno potesse resistere a tutti questi colpi, senza un graffio? Non ero invincibile, certo, ma mi ero allenata duramente per otto anni.
    «Maledizione, ti vuoi calmare?», mi chiese David.
    «No!», gridai, mentre mi bloccava nuovamente la bocca. Perché non mi sentiva nessuno? Stavo facendo un frastuono terribile; non avevo parenti ottantenni con l’apparecchio acustico, qualcuno mi avrebbe dovuta sentire.
    «Puoi calmarti due secondi? Posso spiegare?»
    «No!», tentai di gridare, ma avevo ancora la sua mano davanti alla bocca. Decisi di cambiare tattica. Avrei finto di calmarmi, e mentre era distratto, avrei gridato con tutto il fiato in corpo.
    «Bene, così va bene», mi disse, e mi lasciò libera.
    «Non devi dire a nessuno quello che hai visto,» continuò «perché mi metteresti in grossi guai».
    «Troppo tardi», risposi. Come poteva pretendere certe cose?
    «Mi sono occupato io della tua famiglia», disse.
    Cooosa? Che aveva fatto?
    «Cosa cavolo hai detto?» domandai, pregando di aver sentito male.
    «Tranquilla, non li ho uccisi, ho solo fatto dimenticare a tutti le ultime dieci ore. E ho anche dato loro un sonnifero, ma gli effetti stanno svanendo, quindi non fare rumore. Non devi più dire a nessuno quello che hai visto», ripeté. «Assolutamente no!», gridai «Lo dico a chi voglio! Hai ucciso qualcuno».
    «Non è meglio che tu prima sappia la verità?», mi chiese. «Tanto non ti crederei comunque, quindi risparmiati la fatica», replicai. Era diventato matto, se credeva che gli avrei creduto!
    «Crederai alla verità quando la sentirai», ripeté. Avevo i miei seri dubbi, ma meglio assecondarlo, no? Più tempo impiegava a raccontare la storia, più possibilità avevo di uscire viva da quell’impresa.
    Così mi accontentai di replicare un «vedremo».
    Cominciò a parlare a bassa voce, per quelle che mi sembrarono ore.
    «Prima di tutto il corpo che hai visto, era di un angelo», disse, ma io lo interruppi.
    «Che ci facevi là?», domandai.
    «Avevo seguito quell’angelo. In realtà lo seguivo già da un paio di giorni, e oggi ne approfittai per fargliela pagare», proseguì lui, il volto impassibile.
    «Fargliela pagare per…?», chiesi.
    «Per molte cose. Era lui che usava quella vecchia casa abbandonata per… per qualcosa di orribile». Mi sembrò che stesse diventando sempre più teso.
    Volevo chiedere qualcosa di più sulla faccenda della casa, e specialmente di quello che succedeva al suo interno, però avevo paura di sentire la risposta. La mia mente stava collegando ogni cosa, come se tutto avesse fatto parte di un puzzle. Perciò sorvolai momentaneamente sulla questione.
    Possibile che stesse dicendo la verità? Una parte di me gli voleva credere ― questo avrebbe spiegato molte cose ― ma un’altra parte continuava a sussurrare nella mia mente: sei folle se credi solo a una parola, sei folle se ci credi, metterai tutti in pericolo.
    «Come hai fatto a uccidere un angelo? La spada angelica non funziona solo sui demoni?», domandai. Non sapevo molto sugli angeli, perlopiù vecchie nozioni di storia che non ricordavo. Se mi sentisse mia sorella, probabilmente le verrebbe un infarto, ho studiato un anno intero e non ricordo neanche una piccolissima parte, pensai.
    «No, funziona anche sugli angeli, ma solo in determinate circostanze», mi rispose.
    Stavo per dire qualcosa simile a: «Ma a scuola hanno sempre insegnato che un angelo può essere ucciso solo se gli viene tagliata la testa», quando mi fermai.
    «Quali circostanze?», domandai, mentre più possibilità folli si affacciavano nella mia mente.
    Lui sembrò riflettere un momento, ma poi mi rispose:
    «Se ad esempio è un angelo ad impugnare la spada angelica e colpisce l’altro angelo dritto al cuore».
    Impiegai qualche minuto per registrare le parole e dar loro un significato, poi sobbalzai. Quindi lui era un angelo? Oddio, oddio, oddio! Non per sembrare paranoica, ma vi rendete conto che colpo fu quello? Sarei potuta morire in qualsiasi momento, ora ne avevo la conferma.
    La prima cosa che pensai fu: sono fottuta.
    La seconda, invece, era già un pensiero più intelligente: distrailo, assecondalo, fa’ qualcosa, ma guadagna tempo, in modo che l’effetto del sonnifero svanisca del tutto!
    «Quindi tu sei un angelo?», sussurrai, abbassando ancora di più la voce quando pronunciai l’ultima parola.
    «Lo dici come se fosse una parolaccia. Comunque sì, sono angelo», mi rispose.
    «Ma allora… Perché… Perché hai ucciso uno di voi?», domandai.
    «Te l’ho detto, per molti motivi. Lui aveva un debito da pagare alla mia famiglia. Io l’ho riscattato».
    Poi, passai alla domanda ― anzi alle domande ― che più temevo: «Cosa è successo nella vecchia casa abbandonata? Centra per caso con le scomparse dei ragazzi al villaggio? Cosa sono quei simboli in quella specie di diario? Perché non se ne è mai accorto nessuno? È collegato ai cinque angeli che hanno violato il confine?».
    «Una domanda alla volta», mi rispose lui. «Prima di tutto, non vorresti sapere veramente cosa è successo lì dentro. Secondo, sì, centra qualcosa, anzi, oserei dire parecchio, con la scomparsa dei ragazzi. Venivano condotti là, ma non ci restavano molto. Terzo, non so di quale diario tu stia parlando, quindi non posso risponderti. Non so perché nessuno si sia accorto di quella casa. Probabilmente perché tutti quelli che se ne accorgevano, venivano condotti in quella stanza o veniva causata loro una perdita di memoria. E credo che, sì, sia collegata ai cinque angeli di cui parli», concluse lui. Ma io non gli lasciai neanche il tempo di prendere fiato e proseguii: «Perché non mi hai uccisa? Perché non hai ucciso i miei familiari? Come hai fatto ad entrare nel villaggio?».
    «Non ho ucciso né te né i tuoi familiari perché non ho voluto. Punto e basta, nessun altro motivo. Come sono entrato nel villaggio, sono fatti miei».
    Probabilmente rimasi a bocca aperta, con un’espressione molto simile a quella di un pesce lesso. Ancora non mi era chiaro perché non mi aveva uccisa ― perché non aveva voluto? Come no, e io ero figlia di uno yeti! ― e per di più ero terrorizzata all’idea che gli angeli avessero trovato un modo per entrare nel nostro villaggio. Poi, mi resi conto che doveva essere passato un po’ di tempo da quando avevamo iniziato a parlare, perciò, ignorando la curiosità che cresceva sempre più, approfittai della sua distrazione per mettermi a gridare. Avrebbero dovuto sentirmi, ma non ne ero più così sicura.
    «Maledizione Amy!», gridò David, però fu interrotto da un bussare continuo alla porta della mia camera. Ringraziai il cielo, e quasi mi misi a esultare.
    «Non andare nel bosco. Stai attenta, loro non aspettano altro che un altro demone si avventuri da quelle parti. E ricorda, non dire niente a nessuno, altrimenti…» la frase rimase in sospeso, perché si sentì mia sorella gridare: «Amara? Amara! Apri la porta!».
    «Dimentica ciò che è successo. Ce ne occuperemo noi. E cerca di non cacciarti nei guai. E se proprio non puoi fare a meno di andare nel bosco, vacci armata e accompagnata. Prova a far capire agli altri questo, ma ti ripeto, non dire niente di me. Ci vediamo», disse, e se ne andò.
    Ancora le sue parole mi stavano suonando in testa, quando la porta si spalancò.
    «Amara abbiamo dovuto forzare la serratura! Perché non aprivi? Chi c’era con te?» urlò mia sorella Lauren.
    «Perché hai gridato in quel modo? Ci hai fatto prendere un colpo!» proseguì, mentre un espressione infuriata le compariva sul volto.
    «Ho solo avuto un incubo», glissai, e mi infilai sotto le coperte, infischiandomene delle persone intorno a me.
     
    Top
    .
  4. .:Teva:.
        +1   -1
     
    .

    User deleted


    4
    Sabina
    Alcuni giorni dopo, ancora non ero uscita di casa. Non volevo andare nel bosco da sola, e Siria doveva svolgere il suo incarico, perciò non poteva accompagnarmi. In compenso, passai la maggior parte del tempo a cercare di decifrare qualche simbolo del diario, senza grandi risultati. L’unica cosa che avevo capito era che l’ultimo giorno segnato nel diario, coincideva con il giorno nel quale gli angeli avevano violato il confine. Cercavo di non pensare a come stesse peggiorando la mia vita, non pensare al fatto che avevo conosciuto un angelo che però non mi aveva uccisa, non ricordare la sagoma incenerita e non far vincere la tentazione di rivelare tutto a qualcuno. Infatti, non avevo rivelato a nessuno , neanche a Siria, ciò che in realtà era David e cosa mi aveva detto. Avevo solo fatto capire a tutti che non dovevano andare nel bosco.
    Decisi che era ora di sbrigarsi, così mi armai come meglio potei e decisi di incamminarmi nel bosco. Quel giorno faceva molto caldo, ma gli alberi erano talmente tanto vicini, che quasi non si vedeva più il sole.
    Non vedevo nessuno, perciò mi tranquillizzai. Camminai nel bosco per ore, fino a che non fece buio, perciò presi un fiammifero dallo zaino e lo accesi. Il bello di controllare il fuoco era che potevo usare i fiammiferi come delle normali torce, anche se mi costava un po’ di sforzo mentale e fisico. Non capivo come potessero usare tutti i Poteri, i membri della Famiglia Reale. Io già mi sentivo sfinita e ne possedevo solo uno.
    Un rumore mi fece sobbalzare, perciò la fiamma del fiammifero si indebolì leggermente. Speravo che fosse stato qualche gufo, o qualche altro animale, ma si sa come vanno a finire queste cose. Mi appoggiai al tronco di un albero, con la fiamma davanti a me. Presi da terra un grosso ramo e gli diedi fuoco, dopo spensi il fiammifero e lo gettai a terra.
    «Chi c’è?», domandai. Quando non sentii una risposta, mi rallegrai, ma anche se ci fosse stato qualcuno, non credevo che mi avrebbe risposto.
    Mi sbagliavo. Qualcuno mi rispose, con una risata, poi ci fu un borbottio.
    «Chi c’è?», ripetei. Mi sembrò di sentire più voci, ma poi ci fu il silenzio totale. Stavo decidendo se correre e scappare o rimanere lì ed arrampicarmi sull’albero, quando qualcuno mi afferrò.
    Mi misi a gridare, ma nessuno poteva sentirmi lì nel bosco.
    Ci furono altre voci, una roca che ripeteva: «Bloccatela, bloccatela!» e una più stridula che diceva: «Ha i Poteri, fa parte della Famiglia Reale!».
    Qualcuno mi legò, ma io cercai di resistere, senza grandi risultati.
    «Spegnete il fuoco! Indebolitela!», gridava una terza voce, la più alta di tutte. Cercai di fare resistenza sulla fiamma, concentrandomi sul fuoco, continuando a osservarlo. Però poi qualcuno mi legò una benda intorno agli occhi, allora il fuoco si spense. Lo capii perché quelle voci esultarono.
    «Presto, presto, indebolitela!», continuava a ripetere una voce. Mi chiesi come mi potessero indebolire. Me ne resi conto non appena sentii un dolore fortissimo alla mano destra e una sostanza calda sgorgò dal taglio. Sangue. Poi qualcuno mi diede un colpo in testa e io svenni.
    ***
    Mi svegliai in una stanza impolverata, con un mal di testa tremendo; mi avevano rimosso la benda dagli occhi. Era la stanza della vecchia casa!
    Mi guardai intorno e non vidi a nessuno. Dove potevano essere andati tutti? Non me ne preoccupai, cercai di slegarmi le mani. Non ci riuscivo, non ci sarei mai riuscita. Tastai il pavimento, in cerca di qualcosa di affilato. Non c’era niente! Eppure doveva esserci qualcosa, qualsiasi cosa.
    Il mio sguardo si posò sui coltelli insanguinati su un tavolino. Perfetti!
    Ma non appena cercai di alzarmi, mi accorsi di avere anche il piede sinistro legato alla parete. Maledizione!
    Provai in tutti i modi a slegarmi, ma non ci riuscii. Il tavolino era troppo lontano, era impossibile che riuscissi a prendere qualche coltello.
    Un’idea prese forma nella mia mente. Dovevo cercare del fuoco, un po’ di fuoco. Avrei bruciato la corda che mi legava il piede. Mi concentrai sulla fiamma di una candela, e questa divenne più intensa. Continuai così per un po’ di tempo, ma poi sentii di nuovo delle voci e mi sdraiai a terra, fingendo di essere ancora svenuta. Sentii dei passi avvicinarsi e poi delle voci.
    «Aspetteremo fino a quando si sveglierà e dopo le faremo confessare tutto», disse la prima voce.
    «Porta qui gli altri», ordinò la seconda voce.
    «Non sarà necessario», ribatté la terza voce.
    «Ha dei Poteri, sarà necessario» ripeté la seconda.
    «Ma anche noi li abbiamo e ne abbiamo di più», affermò la terza.
    «Ho detto di andare!», gridò la seconda voce, poi sentii dei passi. Subito dopo qualcuno mi si avvicinò e mi sollevò la testa dai capelli.
    «So che sei sveglia», disse un uomo di mezza età, la seconda voce, mentre io gridavo dal dolore. Aprii gli occhi e qualcosa mi accecò. Era del fuoco! Ed era proprio davanti al mio viso. Tentai di spegnerlo, ma ero ancora troppo debole, e la fiamma si indebolì solamente.
    «È inutile che tu provi a spegnerlo», mi disse. «Piuttosto, rispondi alle nostre domande e noi non ti faremo troppo male, altrimenti…», continuò, posando lo sguardo sulla torcia che aveva in mano. Ero sicura che mi avrebbe dato fuoco se non avessi risposto, il problema era che io non sapevo niente.
    «Senti, io non so cosa credi, ma io non so niente!», gli dissi.
    «Non mentire, o non finirai bene. Hai dei Poteri, sei un membro della Famiglia Reale e tu devi sapere qualcosa» ripeté.
    «Non sono un membro della Famiglia Reale! Non ho neppure tutti i Poteri!», gridai.
    «Ma ne hai uno e solo i Governatori li hanno. Ora rispondi alle domande e non ti faremo troppo male» replicò irritato l’uomo.
    «Quando si recheranno al palazzo principale i Governatori? Per quanto tempo? Chi sorveglierà tutti gli altri villaggi?», domandò, gridando ogni parola.
    Poi, vedendo che non rispondevo, mi lanciò contro la parete e disse: «Bene. Vedo che non vuoi rispondere. Allora, sarò costretto ad usare le maniere forti».
    Nello stesso istante nel quale smise di parlare, entrarono nella stanza cinque angeli, con le ali ancora aperte. Erano due donne sessantenni, i capelli bianchi come la neve e la pelle scura, che contrastava anche con gli occhi, grigi nella prima donna e completamente bianchi nella seconda. Tre uomini erano dietro di loro, due della loro stessa età e con i lineamenti simili, l’altro era quello che sembrava il più temibile. Le ali erano distrutte, piume nere e rade le ricoprivano. Aveva il viso ricoperto da cicatrici provocate da qualcosa molto simile ad un artiglio, il naso ricurvo e sporgente, un’ustione vicino agli occhi.
    «Dobbiamo portarla da Sabina. Non vuole parlare», disse loro il cinquantenne che mi aveva fatto le domande.
    «Io l’avrei portata da lei in qualunque caso, come potremmo verificare in altro modo la correttezza delle informazioni?», chiese la donna con gli occhi bianchi, e riconobbi la prima voce.
    «Sbrighiamoci allora», sentenziò l’altra donna.
    ***
    Passarono dieci giorni circa da quando quel gruppo di angeli mi aveva rapita. Non ero riuscita a capire molto sull’identità di Sabina, chiunque ella fosse, né avevo idea di dove fossimo diretti. Camminavo dall’alba fino al tramonto, sempre nel profondo del bosco, e ci fermavamo la notte solo per riposare. Ero dimagrita, diventavo sempre più pallida ed ero sporca di fango. Ma non era niente in confronto ai tagli che avevo sulle braccia. Ogni giorno, una delle due donne, mi tagliava un braccio con un coltello, in modo da indebolirmi abbastanza, per non poter usare il fuoco che utilizzavano per illuminare contro di loro. Beh, almeno non ti è presa un infezione, pensai. Ma avevo due cicatrici: ogni giorno alternavano braccio e ripassavano la lama sul taglio già presente. Ma il pensiero che più mi tormentava, era quello di aver lasciato le mie sorelle. Mi sentivo terribilmente in colpa, sicuramente dovevano essere impazzite, non era mai successo che mancassi da casa. Specialmente Mary, così piccola e indifesa, se non fossi tornata, ne sarebbe morta. Aveva già perso troppe persone care, non avrei permesso che soffrisse per me. Avrei cercato di sopravvivere in tutti i modi e di tornare a casa il prima possibile.
    Ci dirigemmo verso alcune grotte, ed entrammo dentro una di esse. Era piuttosto piccola, se avessi allargato le braccia, avrei sicuramente sfiorato le pareti, ma doveva essere molto profonda. Camminammo per quelle che mi sembrarono ore, poi ci fermammo davanti ad un bivio. Si misero tutti a discutere, a voce talmente bassa che non riuscii a sentirli, poi svoltammo a destra e camminammo ancora a lungo. Ci fermammo al centro di una grande zona circolare. C’erano delle candele per terra, che gettavano tenui bagliori alle pareti, insieme ad alcuni pezzi di stoffa strappata, una borsa consunta e rovinata dall’usura e un piccolo scrigno. In un angolo c’erano tante boccette, piccoli contenitori e strani oggetti fatti di legno o ossa di animali, probabilmente amuleti e talismani. Al centro della stanza c’era un calderone, che poteva benissimo contenere una persona, tanto era grande. Mi sembrò che un pezzo di oscurità si muovesse e mi accorsi che in realtà era stata una persona.
    «Sabina, che piacere dopo tutto questo tempo. Non sei cambiata per niente», disse l’uomo con le cicatrici.
    «Cosa che invece non si può dire di te», replicò Sabina. Aveva una voce melodiosa, ma sembrava lontana, come se provenisse da un’altra parte. Era giovane, aveva i capelli mossi, rosso scuro, che le arrivavano ai piedi, era magra ed alta, la pelle bianca come la neve. Era troppo pallida, nessun essere vivo poteva avere la pelle così chiara. Sembrava morta. E, la sua pelle, risplendeva, sembrava brillare anche nel buio della grotta.
    «Devi aiutarci», disse la donna dagli occhi bianchi che era dietro di me. «Devi leggerle nel pensiero e farci ottenere le informazioni».
    «Lo so, vi ho visti arrivare. Come mai sei venuto anche tu, Michael? Credevo che non volessi più mettere piede in questo posto», domandò Sabina.
    «Ho cambiato idea, mai e poi mai abbandonerei la mia amata cugina. Sono passati solo vent’anni, non ho avuto modo di venire prima», rispose Michael, l’angelo dall’aspetto minaccioso. Sembrava strano che fossero cugini, e ancora più strano che non si vedessero da vent’anni, visto che Sabina ne poteva avere a malapena venticinque. E Michael le aveva detto che non era cambiata per niente, quindi…
    Sabina si avvicinò a me e mi scrutò con molta attenzione. Aveva gli zigomi sporgenti, la bocca ben disegnata, una fossetta sul mento e il naso dritto. E i suoi occhi erano neri, completamente, era impossibile distinguere l’iride dalla pupilla, leggermente a mandorla. Ma la cosa che mi colpì veramente, furono gli strani segni che aveva sul viso e sulle braccia. Erano dorati, e li notai solo quando mi si avvicinò, erano uno strano insieme di ghirigori e mezzelune, simili alle incisioni che c’erano nelle pareti della grotta. Anche il suo abito era molto strano, era impossibile che appartenesse alla nostra epoca. Era nero e lungo fino ai piedi ― scalzi ― leggermente scollato, l’orlo era sfilacciato, come se fosse stato tagliato. Aveva due spacchi laterali fino alle cosce. Le maniche erano talmente lunghe che le coprivano anche le mani, e sopra l’abito indossava un mantello nero, del suo stesso tessuto. Sabina indossava anche una collana, fatta da quelle che probabilmente erano ossa, lunga fino alla vita.
    «Ho già preparato gli ingredienti base per la pozione. Mi servono solo il suo sangue e un Cuore di Drago. Non sono riuscita a trovarlo in tempo, è molto raro. Se mi procurerai queste cose, farò l’incantesimo».
    «Dalle tu il Cuore di Drago», disse Michael ad un altro angelo. Non sapevo cosa era un Cuore di Drago, mi immaginai un cuore pulsante, grande quanto una persone, battere dentro ad un drago gigante. Mi accorsi invece, che il Cuore di Drago, era una pietra. Era grande quanto un pugno, nera come la pece, con striature rosse e viola. Ed era terribilmente appuntito, tanto che l’angelo che lo consegnò a Sabina, si punse e gli colò del sangue dalla mano. A lei, invece non accadde nulla.
    «Prendi quella boccia che contiene quel liquido verde e lo scrigno», ordinò a nessuno in particolare. Michael fece segno alla donna dagli occhi grigi, che eseguì velocemente l’ordine. Sabina staccò un osso dalla sua collana e lo gettò nel calderone, dopo aprì il piccolo scrigno. Conteneva altri cristalli, di tutti i colori e le dimensioni. Lei ne prese uno piccolo e rosso sangue, con sfumature viola e uno verde e tondo, piccolino, con sfumature gialle e blu. Non li avevo mai visti ― proprio come non avevo mai visto il Cuore di Drago. Gettò anche quei cristalli nel calderone e poi mi si avvicinò.
    «Bloccatela, se non sta ferma non posso fare niente», ordinò. Gli angeli mi legarono in pochissimo tempo, e mi fu impossibile muovere anche un muscolo.
    «Avete detto che ha dei Poteri, ne siete sicuri?», domandò. Michael annuì, in modo quasi impercettibile.
    «Bene», disse Sabina, poi fece ondeggiare la mano e dal nulla apparve un grosso libro, dall’aria antica. Era sospeso in aria, tra lei e me. Si aprì da solo, senza che nessuno lo toccasse, e Sabina lesse ciò che c’era scritto. Poi lo chiuse, fece schioccare le dita e il vecchio libro scomparve nel nulla.
    Mi si avvicinò e solo allora mi accorsi che aveva ancora il Cuore di Drago in mano. Avevo un bruttissimo presentimento, che si avverò. Aveva bisogno del mio sangue.
    «Ora io prenderò il suo sangue e lo metterò nel calderone. Dopo le darò la pozione soporifera e quando si addormenterà dovrete solo domandare ciò che volete sapere, e alcune immagini compariranno nella pozione nel calderone, è tutto ciò che posso fare. Ovviamente, dopo sapete cosa dovete fare. Se rimane in vita, tutto in questa grotta prenderà fuoco, e non ci sarà neanche il tempo di fuggire», spiegò. Mio Dio, mi vogliono uccidere! pensai. Non potevo morire, non potevo. Avrei combattuto con tutte le mie forze, anche se ero legata dalla testa ai piedi. Provai a spezzare le corde, ma era inutile, ero troppo debole, perciò mi graffiai solamente i polsi.
    Sabina schioccò di nuovo le dita, e questa volta apparve dal nulla una boccetta vuota. Mi prese il palmo della mano e lo incise in profondità con il Cuore di Drago, e il sangue colò nella boccetta sospesa in aria. Provai un dolore acutissimo, simile alla puntura di mille spilli, ed emisi un gemito soffocato, cercando disperatamente di non gridare. Non ci riuscii e gridai con tutto il fiato che avevo in gola, ma poi qualcuno mi legò una benda intorno alla bocca e smisi di urlare. Sabina mollò la mano, mentre il sangue gocciolava sul pavimento della grotta, e prese l’altra e la incise nello stesso punto e alla stessa profondità dell’altra mano. Poi mollò anche quella. La boccetta ormai si era riempita a metà. Ma il sollievo che fosse tutto finito durò poco, perché mi prese il braccio destro e mi tagliò all’altezza della spalla. Il sangue mi colò lungo il braccio e mi sporcò la maglietta. Lo mollò e passò al braccio sinistro, tagliandomi l’avambraccio. Quando finalmente si riempì la boccetta, lasciò libero anche quello. Avevo freddo, ero sporca di sangue fino ai piedi e mi sentivo mancare. Osservai distrattamente ciò che fece dopo: si avvicinò al calderone, versò il mio sangue e gettò dentro il Cuore di Drago, subito dopo schioccò le dita e un fuoco apparve dal nulla, e iniziò a riscaldare il calderone, senza bruciare niente ma aumentando sempre d’intensità. Poi prese la boccetta con il liquido verde e mi si avvicinò di nuovo. Mi fece bere quel liquido verde ― che aveva un sapore forte e sgradevole ― e una strana sensazione di sonno mi assalì. Io non volevo dormire, ma i miei occhi si chiusero da soli e tutto si fece buio.
     
    Top
    .
3 replies since 17/1/2014, 16:56   55 views
  Share  
.